Seduto su uno scoglio osservo il mio mare e il castello che sorge su un costone roccioso, le piscine naturali di lava fredda e i faraglioni di Polifemo, l’acqua che sbatte sulla pietra nera e sprigiona lo stesso inconfondibile profumo di alghe. Seduto su uno scoglio mi riporto a una discussione di due giorni fa, quando qualcuno ha detto: “Il lido ha chiuso”.
Dalla pancia senti salire qualcosa che sale ancora e si ferma sull’orlo degli occhi. E allora fai quello che ti sei sempre ripromesso di fare: tornare. Fare un viaggio nel mare delle tue origini, quel mare che ha accompagnato la tua infanzia, che non vedevi da quarantacinque anni e che proprio per questo hai sempre amato e desiderato.
Tante volte mi ero ripromesso di tornare e non l’ho fatto. Ma stavolta è diverso. Stavolta, quando ho saputo la notizia, sono andato. Mi sono seduto su uno scoglio e sono rimasto lì per un pezzo, mentre le macchine sono sparite e al loro posto sono comparse le Seicento, le Cinquecento, le Millecento, e i pescatori coi barconi che fanno ritorno dopo una giornata di lavoro in un luogo pazzesco che sarebbe rimasto per quasi cinquant’anni in un angolo della mia anima, al punto che non so ancora se quel posto esiste davvero o è una invenzione della mia fantasia: un immenso riparo di barche costruito con le basole laviche del vulcano chissà quale secolo prima.
Da lontano senti flebilmente le canzoni di allora, pazza idea, luglio, azzurro, e quel sapore inconfondibile delle pizzette con la pasta bruciacchiata, la salsa dolcissima, il formaggio un po’ solidificato e l’origano, quelle irresistibili pizzette (non ne avrei mangiate di più buone) che mi obbligavano a fare il bagno due ore dopo, perché c’era “la digestione in movimento”.
Quando era il momento d’abbuddarisi era una festa. Il mio mare non era il mare con la sabbia che avrei conosciuto dopo. Il mio mare aveva tavole montate sugli scogli – oggi li chiamano solarium – dove venivano ricavati ampi spazi per prendere il sole, godere l’ombra, chiacchierare, mangiare e giocare a carte.
A mare si scendeva da una scaletta. Quando arrivavi sentivi il piacere di immergerti in quella tavolozza di colori riflessi nell’acqua: il verde delle palme e delle piante grasse, il rosso delle buganvillee, il bianco dei gelsomini, il nero della lava fredda.
Fino all’età di cinque anni mi abbuddavo col salvagente di plastica, guardando con un pizzico d’invidia quelli che facevano il bagno con la camera d’aria gonfiata, ‘a rota.
Superata la scaletta ci si immergeva nel punto dove si toccava, ma una corda provvidenziale legata fra l’ultimo gradino e lo scoglio dava la possibilità ai meno esperti di spingersi fino alle “Colonne d’Ercole” – un paio di metri di distanza – oltre le quali c’era “il largo”, lo spazio, l’infinito.
Fu allora che ebbi la percezione che la paura del mare non è causata tanto dalla percettibilità delle distanze, quanto dai misteri delle profondità. Chi non sa nuotare teme l’imponderabile degli abissi, non la prevedibilità della lontananza. Presi una maschera, mi aggrappai alla scaletta e cominciai ad esplorare i fondali. Un nuovo mondo, meraviglioso e fantastico, si presentava ai miei occhi. Pesci piccoli e grossi scivolavano tranquilli a poca distanza e ogni tanto guizzavano sul pelo dell’acqua; alghe verdi e marrone erano attaccate agli scogli; qualche granchio si nascondeva furbescamente negli anfratti delle rocce, e poi cozze, vongole, telline e qualche stella marina. Quando vidi che gli abissi erano questi, la paura scomparve, mi sganciai dalla scaletta e mi accorsi che avevo imparato a nuotare.
Seduto su uno scoglio adesso osservo il mare: in mezzo alle rocce c’è solo qualche pezzo di legno, residuo del tempo che fu; dei ragazzi fumano su una base in cemento, degli sporadici pescatori parlottano poco più in là.
In acqua a fare il bagno non c’è nessuno, dicono che oggi c’è parecchio inquinamento, i bagnanti sono emigrati. Da lontano si vede Acitrezza, irriconoscibile, con quei palazzoni che le hanno sfigurato il volto. Il castello è sempre lì, maestoso e superbo, come se dall’alto volesse snobbare le piccole cose del genere umano. Anche le piante di buganvillee e di gelsomino sono sempre lì, belle e profumate. Manca l’anima.
Luciano Mirone