Sbaglia chi dice che l’origine del genocidio di Gaza sia iniziato con l’azione terroristica di Hamas, che il 7 ottobre di due anni fa – con un’azione cruenta da condannare “senza se e senza ma” – ha causato 1194 vittime israeliane (fra civili e militari) e il rapimento di circa 250 persone tenute tuttora in ostaggio. Tutto però non inizia nel 2023.
La data da cui nasce la situazione attuale è scritta nella storia: 1948. Migliaia di ebrei, reduci dallo sterminio nazista della Seconda guerra mondiale, si organizzano militarmente, socialmente ed economicamente, stipulano ferree alleanze con le più grandi potenze mondiali (Stati Uniti in testa) e scelgono la Palestina per creare il nuovo Stato di Israele.
Da quel momento inizia la brutale deportazione del popolo palestinese: uomini donne bambini anziani vengono privati della loro casa e della loro terra, dei loro sorrisi, umiliati, cacciati, uccisi. Sono passati quasi ottant’anni, alcune persone si sono immolate per la pace, ma l’odio, invece di sopirsi,ha preso il sopravvento e la situazione si è incancrenita al punto che conosciamo.
Basta vedere i numeri. Prima del 7 ottobre, i palestinesi uccisi dall’esercito israeliano (dal secondo conflitto mondiale al 2023) erano circa 35 mila. Negli ultimi due anni, sono raddoppiati: quasi 70 mila, di cui 20 mila bambini, quindi complessivamente i palestinesi uccisi ammontano ad oltre 100 mila, ma sicuramente si tratta di una cifra calcolata per difetto, poiché bisogna considerare le persone (probabilmente altre 70 mila) morte sotto le macerie dei bombadamenti e non ancora recuperate.
I morti registrati dal lato israeliano sono infinitamente meno. Dalle ricerche effettuate, non siamo riusciti a risalire al numero esatto, ma quel che è certo è che il paragone non regge per un motivo semplicissimo. Da una parte abbiamo un esercito dotato perfino dell’atomica, dall’altro un popolo che si difende con le pietre, o dei gruppi terroristici dotati di qualche bomba a mano, di mitra, di pistole e di pugnali.
Adesso portiamoci agli anni Novanta, quando il sette volte Presidente del Consiglio Giulio Andreotti pronuncia in Parlamento una frase destinata a passare alla storia: “Se un esercito avesse ucciso i miei genitori e i miei fratelli e mi avesse privato della casa, della terra e della libertà, io sarei diventato un terrorista”.
Perché alla fine – piaccia o no – la sostanza della “questione palestinese” è questa: da un lato un esercito oppressore, dall’altro un popolo oppresso. Da cui per disperazione, per rabbia, per fame, per non morire, si creano frange di terroristi che ingrossano le organizzazioni che preparano le stragi. Se non si parte da qui, se si equiparano gli oppressi e gli oppressori – come ancora si cerca di fare quando si parla della resistenza in Italia – si compie un’opera di mistificazione. La Palestina non è Hamas e Hamas non è la Palestina. Non generalizziamo.
Cristianamente i morti sono tutti uguali e vanno pianti e pregati, i delitti condannati, ma politicamente i morti non sono tutti uguali, sennò dovremmo equiparare le azioni dei nazisti con quelle dei partigiani.
Sbaglia chi dice che Israele fa bene a bombardare il popolo palestinese per eliminare i terroristi di Hamas che – secondo il premier israeliano Benjamin Netanyahu – troverebbero rifugio nei cunicoli di Gaza usando i bambini come scudi umani. Sarà ma allora perché Hamas è ancora viva? Dobbiamo aspettare che Israele “finisca il lavoro”, come dice il presidente Usa, Donald Trump, nel senso che dovrebbe compiere uno sterminio di proporzioni più devastanti, per sconfiggere il terrorismo?
La verità è che una parte di Hamas magari trova riparo nei rifugi sotterranei di Gaza, ma un’altra parte si nasconde altrove. Appare difficile che Israele, che dispone dell’intelligence più potente del mondo, non riesca ad individuare i capi per decimarli (come dice di voler fare) o per ridimensionarli.
L’impressione è che si tratti di un alibi per giustificare la pulizia etnica che sta perpetrando nei confronti dei palestinesi: l’annientamento totale di un popolo per allargare i propri confini nella Striscia e in Cisgiordania, dove quel popolo trova rifugio fra sofferenze inenarrabili. Un annientamento “scientifico” in cui l’uso delle bombe è solo un aspetto. L’altro è la gestione della fame mediante la distruzione sistematica del cibo e dei medicinali che arrivano a Gaza. Ricordate il 2003, quando il segretario di Stato americano Kolin Powel mostrò alle telecamere di tutto il mondo una provetta che – a suo dire – conteneva “l’arma segreta” di Saddam Hussein, l’antrace, che doveva servire per costruire le armi di distruzione di massa? Una balla colossale. Che in quel momento – auspice il primo ministro inglese laburista Tony Blair, oggi chiamato da Trump per occuparsi della ricostruzione della Striscia di Gaza – fu utilizzata come pretesto per bombardare la popolazione dell’Iraq, dove la famiglia Bush e molti petrolieri avevano messo gli occhi. Per democratizzarla? No. Per mettere le mani sulle vaste riserve petrolifere.
Sbaglia chi dice che la missione della Global Sumud Flotilla (50 navi, 500 attivisti provenienti da 44 Paesi del mondo mobilitati per portare avanti la più grande missione umanitaria nei confronti del popolo palestinese tramite la fornitura “diretta” di cibo e di farmaci) si sarebbe dovuta concludere a Cipro, dove il materiale doveva essere consegnato alla Chiesa cattolica (in questo caso il Patriarcato di Gerusalemme) che lo avrebbe trasportato fino al porto di Ashod, in Israele, e da lì smistato a Gaza. Peccato che l’operazione sarebbe dovuta passare dal controllo delle autorità militari israeliane che, come detto, usano la carestia come arma letale.
Sbaglia chi dice che la Global Sumud Flotilla sia finanziata da Hamas, come sostiene Netanyahu. O meglio, sbaglia se non porta le prove. E siccome finora non è successo, possiamo essere autorizzati a dire che politici e giornalisti che ripetono questa baggianata si macchiano del peccato di impostura?
Sbaglia chi dice – anche in questo caso la parte più surreale del giornalismo italiano – che di fronte alle imponenti manifestazioni pacifiche organizzate dalla Società civile del nostro Paese, la “vera” notizia non è questa, ma la rottura di alcune vetrine e il ferimento di diversi agenti (fatto, anche questo, da condannare “senza se e senza ma”).
A parte il fatto che bisognerebbe far luce su queste frange di giovinastri per capire se si tratta di esaltati, di teppisti o di gruppi organizzati (ricordate i “black bloc” di Genova?), possibile che giornalisti con tanti anni di carriera abbiano una concezione così distorta delle notizie?
Ci auguriamo che sia così, ma abbiamo il timore che non sia così. Cioè abbiamo la sensazione che si voglia gettare benzina sul fuoco per creare il solito scontro ideologico “destra-sinistra” (molto in voga negli anni Settanta), per fare ricadere certe responsabilità su una parte attraverso un uso sapiente della falsa informazione, per consolidare infine un potere che non riguarda solo l’Italia, ma le parti più oscurantiste del pianeta.

Luciano Mirone