Lunedì mattina. L’ autobus non passa. Aspetto e intanto penso. Sai qual è la cosa più umiliante? Non è il contratto a tempo determinato. Non è l’orario spezzato, né i turni che cambiano ogni settimana come se non avessi una figlia da crescere. No.

La cosa più umiliante è sentire che tutto questo non conta. Che non vale. Che se ti lamenti, sei esagerata. Se protesti, sei polemica. Se voti… ah, se voti sei un’ingenua.

E infatti… non ci va più nessuno. Referendum? Ma va’. Troppa fatica. Troppa delusione. Soldi spesi a cazzo. Non è un dovere. Li propone quella parte politica così incoerente, così snob. Ci fanno i meme con le facce dei leader di quella parte politica. Tutti condividono. Così, per ridere. Che risate.
Meglio il mare.

Io ci sono andata, a votare. Con mia figlia per mano. E lo sapevo che non sarebbe servito a niente. Ma io volevo che lei mi vedesse. Che capisse. Che un diritto non si butta. Che non si baratta per una domenica libera.
(Una pausa. Si accende la rabbia.)

E intanto Carmelo, il mio collega, è stato licenziato. Senza un motivo vero. Una scusa. Via. Fuori. Dopo quindici anni. E nessuno che abbia detto una parola. Neanche il sindacato che c’è quando gli conviene: “eh, è complicato”. Complicato? No, so io cos’è complicato. Spiegare a tua figlia che domani forse non potrai farla studiare dove desidera lei. Quello sì che è complicato.

E poi c’è Esram.
Viene dal Marocco. Lavora più di tutti. Non si è mai lamentato. È gentile, puntuale, educato. Non è sporco, non è cattivo, non beve, non fa risse in piazza. Parla italiano meglio di certi ministri. Ma per qualcuno è sempre “l’extracomunitario”. Sempre. Non è un uomo. No. Lui è pregiudizio che cammina, un luogo comune. Abbiamo bisogno di cattivi nelle storie che ci raccontiamo. Lui, il ragazzo più mite ed educato che io conosca, è il cattivo. Punto.

E l’integrazione? Una parola da convegno. Una promessa che non arriva mai. Come il mio autobus. Che ha saltato la fermata. Anche questa volta. Mannaggia. Mi conviene andare a piedi.
E penso anche mentre cammino.

Io ho quarantasei anni. Non sono più giovane. Ma nemmeno vecchia. Solo stanca.

E sento che quello che accade lì fuori — i referendum disertati, le lotte dimenticate, i diritti svenduti — è qualcosa che vivrò sulla pelle. Sulla mia, sulla nostra. Quella delle donne, delle madri, dei precari, degli invisibili.

E che nessuno venga a dirmi che comunque “la democrazia è solida”. Minchiate. La gente non ci crede più. Non ci crede più nessuno.

Ce la stiamo rosicchiando. Poco a poco. La democrazia. Che credevamo di avercela sempre lì, sempre uguale. Sì, come no. A furia di scetticismo e risate e distinguo e divisioni, la democrazia ce la stiamo scordando. Qualcuno un giorno verrà a dirci, ridendo, che l’avevamo la democrazia, e non l’ abbiamo voluta. Troppo tardi.

E mentre lo dicono, ridono.
Ridono.

Elisa Di Dio

(stamattina molto arrabbiata)