La festa di sant’Alfio a Trecastagni è senza dubbio la manifestazione di folclore religioso più caratteristica della plaga etnea: per molti versi è assimilabile alle altre feste patronali della Sicilia orientale, mentre per affluenza di popolo da gran parte della provincia e per la pratica di riti e usanze può essere considerata un “unicum” nel suo genere.
Pur nella sua staticità negli elementi essenziali da oltre quattro secoli essa è andata via via modificandosi in talune forme per l’abbandono di certe pratiche specifiche e la introduzione di nuove in rapporto al mutare dei tempi e all’evoluzione della civiltà sotto l’aspetto umano, civile e tecnologico. Sotto l’aspetto poi strettamente religioso, mentre sono scomparse pratiche esteriori raccapriccianti, quasi disumane, quali lo strascico della lingua dall’ingresso della chiesa fino all’altare maggiore e il percorso dello stesso tragitto sulle ginocchia nude, sono ancora molto diffusi i pellegrinaggi individuali a piedi scalzi – i viaggi – per tutti i giorni del novenario anche da località abbastanza distanti.

Lo strascico della lingua era frequente nel Settecento, nell’Ottocento ed ancora fino agli anni Trenta del secolo scorso: ho anch’io osservato con raccapriccio e commozione la lingua insanguinata di una donna, preceduta dalla figlia che con un fazzoletto bianco puliva il pavimento, sul quale lasciava strisce di sangue. Qualcuno tentava, ma inutilmente, di alzarla da terra, resistendo anche alle insistenze del sacerdote che voleva dissuaderla a continuare.
Il Bonanno, nelle annotazioni alla sua “Vita dei tre santi Alfio, Filadelfo e Cirino”, scrive: “… Niuno può rattenere le lacrime alle mostre di calda devozione, che fannosi ‘a tre gloriosi Martiri. E chi senza sentire per tutte le membra fortissimo brivido può vedere le penitenze, che parecchi vi fanno in quel giorno di festa, strascinando la lingua dal limitare della porta grande fino al primo gradino dell’altare maggiore. E qui è da considerare che nei tempi andati fino a quest’anno (1838) il pavimento della chiesa è stato, giusto nel mezzo, scabrosissimo, perché i mattoni sonosi rotti in tal guisa per lo strascico delle quattro ruote della gran bara di trionfo, ossia del fercolo, che sono divenuti per così dire minuzzoli”.
“Ciò non ostante – scrive ancora il Bonanno -, sopra un pavimento cotanto scabro, i fedeli hanno sciolto il voto dell’anzidetta penitenza ostinatamente: imperocché mai non hanno voluto cambiarla con altra meno pericolosa alla loro sanità per consiglio de’ cappellani della chiesa ivi presenti. Laonde si è a ogni anno dovuto vedere quel pavimento colorito a parecchie strisce di sangue. Per rendere meno straziante e pericoloso lo strascico della lingua, si è nell’aprile di quest’anno fatta, con denaio di alquanti devoti, nella linea centrale del pavimento della chiesa una striscia di marmo; ed ai lati di essa si sono aggiunte due larghe strisce di lastre di lava etnea, per passarvi sopra il fercolo senza avvenire spezzamento di mattoni”.
Fino agli anni Quaranta del secolo scorso le vie della cittadina erano invase da carretti rumorosi, gremiti da uomini, donne e bambini, seduti su seggiolini ben legati alle sponde, i quali, accompagnandosi con strumenti vari, propri della civiltà contadina, fischietti, marranzani, tamburelli, e qualche volta chitarre e mandolini, si esibivano in canzoni popolari, cantilene, serenate, intercalate dal frequente grido “Viva Sant’Alfio”.
Era il carretto il mezzo comune di locomozione per famiglie e comitive di estrazione popolare, oggi sostituito dall’automobile, che ha tolto alla festa quella nota di colore, di allegria chiassosa propria del folclore. La partecipazione della masse appare oggi più composta, meno rumorosa, ma anche più fredda e distaccata e poco partecipe di quel tocco di allegria e festosità nelle quali si manifesta e si coglie il carattere proprio del popolo nella sua semplicità e nella sua genuinità, estraneo ad ogni formalismo di facciata.
L’odierna sagra del carretto siciliano, artisticamente scolpito e lavorato, trainato da fieri cavalli sfarzosamente bardati, altro non è che il retaggio o il ricordo, elevato a celebrazione storica, di quel mezzo di trasporto proprio della civiltà contadina e popolare ormai sommersa e travolta dal progresso tecnologico e alla quale si guarda con una nota di nostalgia e rimpianto, rimpianto per una vita semplice, scevra dalle complicazioni formali e dalla insoddisfazione che oggi dominano il vivere quotidiano.
Dopo l’uscita dei Santi si formavano le lunghe teorie di carretti verso le località di partenza, con le sponde cariche di agli di mazzi pendenti, mentre gli uomini vuotavano fiaschi di vino rosso con abbondanti mangiate di carne equina. In questo fondersi e confondersi in nodi inestricabili, religiosità e folclore, allegria e spensieratezza, soddisfazione per un voto tramandato dai padri e dai nonni e adempiuto fedelmente, palpita l’anima del popolo nella sua semplicità e genuinità e nella compiuta soddisfazione di desideri e ambizioni elementari.
Quella lunga fila di carretti chiassosi in una allegrezza sfrenata rappresentava a Catania nel pomeriggio di quel fatidico 10 maggio la “calata dei ‘mbriachi”, il coronamento di una festa che, perdendo ogni parvenza di religiosità, diveniva soltanto baldoria sfrenata di gente allegra. Nella Catania di allora, per le vie affollate, si creava un tale tumulto da indurre il vescovo ad esonerare i canonici della cattedrale a recarsi in chiesa per il canto o la recita del divino uffizio.
Quei “nudi”, che la notte precedente si erano partiti dalla città a gruppetti o singolarmente, con la pesante torcia sulle spalle, fra il continuo grido di Viva Sant’Alfio, che udivo nel silenzio del buio dormitorio del collegio mentre la fantasia mi trasferiva commosso nella piazza del paesello in festa, ora tornavano avvinazzati sui carretti con nel volto i segni della gioia e della soddisfazione per avere adempiuto un voto, un compito, un dovere avvertito con scrupolo religioso, anche se poi si tratta di esteriorismo formale, che poco o nulla incide sulle intime convinzioni morali e sui comportamenti del vivere quotidiano nei rapporti con se stessi, con il prossimo e con la realtà nella quale si vive.
Questo e tante cose ancora è stata nel passato la festa di Sant’Alfio, festa di un’intera provincia, da Bronte a Biancavilla, Adrano, Paternò, Belpasso, i paesini più vicini, Acireale, dove la devozione per i Tre Fratelli è stata sempre vissuta con trasporto e ancora oggi, pur in forme diverse e con diverso sentire, si avverte e si pratica e si vuole tramandare ai figli in manifestazioni più raccolte, più convinte e prive di esteriorismo e formalismo feticistico e come espressione di fede illuminata e non di cieca adesione alle tradizioni.
Nella foto: edizione 1957 della festa di sant’Alfio a Trecastagni (immagine gentilmente concessa dalla pagina Fb Trecastagni antica, gestita da Alfio Mangiagli)
Redazione
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