L’ex sindaco di Randazzo (Catania) Francesco Sgroi, e l’ex assessore ai Lavori pubblici Nunzio Batturi sono stati dichiarati “incandidabili” dalla Prima sezione civile della Corte d’Appello di Catania (dott. Nicola La Mantia Presidente; dott. Marcella Murana Consigliere, dott. Antonio Caruso Consigliere), contrariamente a quanto stabilito dalla sentenza di primo grado emessa qualche mese fa dallo stesso Tribunale.

Uno scorcio di Randazzo. Sopra: l’ex sindaco Francesco Sgroi
Il procedimento è stato promosso in seguito al ricorso presentato dal Ministero dell’Interno e dalla Prefettura di Catania, attraverso l’avvocatura dello Stato contro i reclamanti Francesco Giovanni Emanuele Sgroi (rappresentato e difeso dall’avv. Luigi Casiraro) e Nunzio Gerardo Proietto Batturi (rappresentato e difeso dagli avvocati Fabrizio Tigano e Stefania Caggegi).
Queste le conclusioni (che pubblichiamo integralmente) dei Giudici della Corte d’Appello di Catania:
“All’udienza del 26.3.2025, sulle conclusioni delle parti come in verbale, il reclamo è stato assunto in decisione.
IN FATTO ED IN DIRITTO
Il Ministero dell’Interno ha proposto reclamo avverso il decreto emesso in data 2.1.2025 nel procedimento iscritto al n.2438/24, con il quale il Tribunale di Catania ha dichiarato “l’insussistenza dei presupposti per la declaratoria di incandidabilità, ex art. 143 T.U.E.L., di Sgroi Francesco Giovanni Emanuele e dell’ex assessore Proietto Batturi Nunzio Gerardo”, con compensazione delle spese di lite”.
“Il Ministero reclamante, richiamando quanto già esposto nel ricorso introduttivo e nella allegata relazione prefettizia, in via preliminare, ha censurato il provvedimento di primo grado per non avere il Tribunale ordinato, ai sensi dell’art.210 cpc, l’esibizione della documentazione coperta da classifica di segretezza, ai sensi dell’art. 42 della legge n. 124/2007; si è, inoltre, doluto dell’’agere’ del primo Giudice, il quale avrebbe ‘scomposto’ i complessi e plurimamente collegati addebiti, ritenendoli singolarmente non significativi ed omettendo del tutto – in contrasto con la prevalente giurisprudenza di legittimità – un momento di sintesi che, invece, avrebbe condotto a ritenere cogente l’adozione della misura”.
“Secondo il Ministero, in particolare, ‘Il Tribunale discostandosi del tutto dal costante orientamento giurisprudenziale anche della Suprema Corte, ha, invero, sottostimato le plurime condotte addebitate ai due amministratori, affermandone la neutralità e irrilevanza e obliterando che la responsabilità dell’organo di vertice e degli esponenti dell’apparato politico-amministrativo deriva dall’omessa attivazione dei poteri di indirizzo e controllo previsti in capo agli organi politici dei comuni sulla gestione amministrativa, finanziaria e tecnica dell’ente operata dall’apparato burocratico e, in particolare, dai dirigenti, dai funzionari e dai dipendenti comunali”.
“La giurisprudenza di legittimità e di merito, come noto, riconosce quale comportamento idoneo ad integrare la responsabilità dell’amministratore, ai sensi dell’art. 143, comma 11, del d.lgs. n. 267/2000, proprio il mancato esercizio delle funzioni di indirizzo politico-amministrativo e delle funzioni di controllo ad esso spettanti nei confronti dell’apparato burocratico. Al riguardo, richiamando principi ormai consolidati, i giudici di merito hanno recentemente ribadito che “È certo vero che l’art. 107 del decreto legislativo n. 267/2000 abbia inteso dare continuità al principio di separazione tra responsabilità politiche ed amministrative, ma se l’assetto organizzativo dell’ente locale assegna ai dirigenti compiti di amministrazione attiva, decisionali e di responsabilità, da esercitarsi in autonomia rispetto agli organi elettivi, nondimeno non rende tali ultimi organi estranei al ripetersi di irregolarità ed illeciti di gestione. Come attentamente rilevato dalla giurisprudenza, restano, invero, fermi, ai sensi del suddetto articolo 107, i compiti di indirizzo e, segnatamente, di controllo politico-amministrativo, che, se non vanno esercitati partitamente per ogni singola determinazione provvedimentale, devono investire trasversalmente l’operato dei funzionari con qualifiche dirigenziali (cfr. Cass. 10780/2019 e Cons. Stato 256/2016)” (cfr., Trib. Foggia n. 2288 del 2 aprile 24)”.
“Infatti, come ormai da tempo ben chiarito dalla giurisprudenza di legittimità, l’esatta distinzione tra attività di gestione ed attività di indirizzo e di controllo politico-amministrativo non esclude che il non corretto funzionamento degli apparati dell’amministrazione sia addebitabile all’organo politico quando non risultano le attività di indirizzo e di controllo dirette a contrastare tale cattivo funzionamento (cfr., Cass. 27/05/2015 n.10945)”.
“Le vicende prese in esame dalla commissione di indagine e riferite nella relazione prefettizia dimostrano incontrovertibilmente come il massimo organo di governo e di indirizzo controllo politico-amministrativo dinanzi alle anomalie, irregolarità e malfunzionamenti della macchina amministrativa dell’ente locale, si sia dimostrato sostanzialmente inerte nel riportare l’attività dell’amministrazione sui binari della legalità, così assicurando il rispetto dei principi di legalità, imparzialità, trasparenza, buon andamento e regolare funzionamento dei servizi affidati all’ente, il tutto anche al fine di alimentare la credibilità delle amministrazioni locali verso il pubblico ed il rapporto di fiducia dei cittadini verso le istituzioni”.
“Rileva osservare che la suprema Corte, anche recentemente, richiamando la propria consolidata giurisprudenza, ha ribadito che “ai fini della dichiarazione d’incandidabilità, non si richiede necessariamente una condotta commissiva, ma è sufficiente una condotta anche soltanto omissiva, ove la stessa abbia costituito la causa o la concausa dello scioglimento dell’organo consiliare, potendo tale fattispecie realizzarsi quando l’amministratore abbia omesso di assumere, anche solo per colpa, le determinazioni utili per rimediare ad ingerenze esterne e a pressioni inquinanti derivanti da associazioni criminali (cfr. Cass., Sez. I, 31/01/2019, n. 3024; 15/02/2021, n. 3857)” (cfr., Cass., Sez. I, 12.04.24 n. 9928)”.
“In data 12.2.2025 la Procura Generale della Repubblica di Catania ha depositato una nota con la quale ha chiesto l’accoglimento del reclamo. Si sono costituiti Sgroi Francesco Giovanni Emanuele e Proietto Batturi Nunzio Gerardo per eccepire l’inammissibilità e per chiedere il rigetto del proposto reclamo. Concessi i termini per lo scambio di memorie, all’udienza del 26.3.2025 il reclamo è stato introitato in decisione”.
“Preliminarmente merita di essere esaminata la richiesta di esibizione documentale, avente ad oggetto la relazione curata dall’organo ispettivo, avanzata dal Ministero reclamante, il quale ha sostenuto che, trattandosi di documentazione ‘classificata’, la stessa non poteva essere depositata spontaneamente, ma solo in forza di un apposito provvedimento dell’AG ed ha invocato a sostegno del superiore assunto l’art.42, c.VIII, Legge 124/07 a tenore del quale “qualora l’autorità giudiziaria ordini l’esibizione di documenti classificati per i quali non sia opposto il segreto di Stato, gli atti sono consegnati all’autorità giudiziaria richiedente, che ne cura la conservazione con modalità che ne tutelino la riservatezza, garantendo il diritto delle parti nel procedimento a prenderne visione senza estrarne copia”.
“Il motivo appare chiaramente infondato ed inammissibile. Rilevato, innanzitutto, che nel corso della prima fase del giudizio la richiesta di esibizione documentale, rigettata dal Tribunale, era stata avanzata dagli odierni reclamati, osserva questa Corte come dal tenore letterale della disposizione sopra trascritta ed invocata dal Ministero si ricavi inequivocabilmente l’assenza di un divieto alla produzione di documenti ‘classificati per i quali non sia opposto il segreto di Stato’. Nella fattispecie, quindi, era rimessa alla libera scelta e facoltà del Ministero la produzione della relazione ispettiva, senza che si rendesse affatto necessario alcun ordine da parte della AG. L’art.42, c.VIII, L.124/07 non stabilisce che la produzione dei documenti sopra indicati possa avvenire solo dietro ordine dell’AG, ma si limita a prescrivere, nei casi in cui la produzione non avvenga spontaneamente e si renda, quindi, necessario ordinarne l’esibizione, ‘la conservazione con modalità che ne tutelino la riservatezza, garantendo il diritto delle parti nel procedimento a prenderne visione senza estrarne copia’. Erra, quindi, il Ministero nel sostenere che la produzione dei documenti ‘classificati’ possa avvenire solo su ordine dell’AG, atteso che nessuna norma lo prevede. La assenza di alcun divieto rende, di conseguenza, inammissibile l’istanza di esibizione, in quanto proveniente dalla stessa parte che, pur essendone pienamente facultata, non ha prodotto i documenti che ne costituiscono oggetto”.
“Tanto premesso e passando all’esame del merito del reclamo, è opinione di questa Corte d’appello che lo stesso sia fondato e meriti di essere accolto. Per esigenze di economia processuale, verranno presi in esame e saranno oggetto di valutazione solo quei comportamenti ascritti agli odierni reclamati che, letti in un’ottica complessiva ed unitaria, consentono di ritenere sussistenti i presupposti per la dichiarazione di incandidabilità ai sensi dell’art.143 D. L.vo 267/00, così come novellato dal D.L. 113/18, tralasciando i rimanenti per i quali si condividono le argomentazioni esposte dal Tribunale di Catania a sostegno del decreto di rigetto”.
“Occorre, al fine, muovere dalla considerazione che entrambi i reclamati hanno svolto funzioni di amministratori locali (lo Sgroi, quella di sindaco, dal 2018, per due sindacature, sino allo scioglimento del consiglio comunale nel 2024, con una breve parentesi, ed il Proietto Batturi, quella di assessore ai Lavori Pubblici da giugno 2022 a dicembre 2023) nel comune di Randazzo nel quale, come confermato anche dall’indagine penale denominata ‘terra bruciata’, che ha visto coinvolto anche lo Sgroi, risulta particolarmente radicata la presenza e la pressione della criminalità organizzata facente capo a due distinti gruppi: 1) il gruppo c.d. Sangani, con a capo Salvatore Sangani, riconducibile al noto clan Laudani; 2) il gruppo c.d. Ragaglia”.
“Dalla allegata relazione prefettizia emergono una serie di circostanze che hanno condotto allo scioglimento del consiglio comunale di Randazzo con Decreto del Presidente della Repubblica del 26.1.2024, impugnato dinanzi al TAR Lazio (giudizio verosimilmente ancora pendente). Nella relazione prefettizia si dà atto che la superiore iniziativa ha trovato fondamento negli esiti dell’indagine penale denominata ‘terra bruciata’, conclusasi con l’arresto di 21 persone ritenute organiche o contigue al gruppo mafioso Sangani. Le indagini hanno visto coinvolto anche il sindaco Sgroi a carico del quale erano emersi elementi di rilevanza penale per il reato di cui agli artt.110 e 416 ter cp (scambio elettorale politico-mafioso). Per come documentato in atti la posizione dello Sgroi è stata stralciata ed il pubblico ministero ha avanzato richiesta di archiviazione, ma non – contrariamente a quanto dedotto dalla difesa del reclamato – perché è stata accertata la sua estraneità ai fatti, ma, al contrario, soltanto per l’assenza di sufficienti elementi di prova a suo carico, risalendo i fatti ad epoca anteriore all’avvio delle attività di indagini di natura tecnica da parte della P.G. (v. richiesta di archiviazione in atti)”.
“Così definito il contesto territoriale in cui si inquadrano le vicende che occupano, può quindi procedersi all’esame separato delle posizioni dei due reclamati”.
“SGROI FRANCESCO GIOVANNI EMANUELE. Non è contestato che nell’anno 2011 il sindaco di Randazzo sia stato vittima di un furto consumato presso la propria abitazione. A prescindere dalla contestazione e dalla assenza di prova in merito alla successiva aggressione e minaccia di morte rivolta ai presunti responsabili del gesto delittuoso anche al fine di ottenere la restituzione della refurtiva, lo stesso Sgroi ha confermato di essersi rivolto ad un boss locale (tale Rosta Francesco, oggi deceduto) per ‘carpire informazioni’ (audito dianzi alla commissione di indagine il primo cittadino ha dichiarato che ‘… con riguardo a Franco Rosta, ricordo che acquisii la gestione di un rifornimento di carburante a Passopisciaro presso il quale si fermava, in qualità di avventore, questo personaggio gravato da precedenti di mafia, dal quale in occasione della sua permanenza nella mia attività cercavo di carpire da lui informazioni circa gli autori del furto avvenuto in casa mia nel 2011”; v. relazione prefettizia)”.
“Nel provvedimento gravato il Tribunale si è espresso nei seguenti termini: ‘Quanto al citato episodio del furto in abitazione, l’ex sindaco ha contestato la circostanza per cui avrebbe chiesto, tramite il cognato, informazioni circa gli autori dell’atto predatorio e avrebbe sollecito a tal fine l’intervento del pregiudicato Francesco Rosta; in ogni caso tale episodio, risalente all’anno 2011 e privo di riscontri probatori sulla base della documentazione agli atti, non ha alcun legame con le circostanze che hanno condotto allo scioglimento del consiglio comunale. E ciò alla luce del più volte richiamato necessario accertamento del nesso di causalità che deve collegare le condotte di amministratori con le ragioni che hanno determinato lo scioglimento del consiglio comunale che, come è evidente, non possono attenere a generici riferimenti del tutto slegati con le attività svolte dall’amministratore nell’espletamento del proprio mandato elettorale”.
“La circostanza che l’episodio risalga al 2011 non solo non è rilevante, ma, al contrario, è sintomatica di una vicinanza dello Sgroi agli ambienti malavitosi locali ben prima della sua discesa in politica (solo nel 2013 si sarebbe candidato, per la prima volta, senza, però, essere eletto e ripresentandosi nel 2018). Ed è del pari pregna di significato la incontestata scelta di rivolgersi ad un esponente mafioso di spicco anche solo per avere informazioni su di un episodio di oggettiva scarsa gravità e di nessun allarme sociale. Solo chi abbia abituale frequentazione con esponenti di una consorteria mafiosa può pensare di rivolgersi loro per conoscere i responsabili di un furto e per il recupero della refurtiva”.
“Altra contestazione mossa al sindaco Sgroi e ritenuta non rilevante dal Tribunale è quella concernente la mancata esecuzione delle ordinanze di demolizione di alcuni manufatti abusivi riconducibili ad una delle famiglie mafiose di Randazzo e costruiti su terreni di proprietà comunale. Il Ministero reclamante ha stigmatizzato l’inerzia e la tardività dell’intervento dell’ex sindaco, che ha richiesto alla Regione siciliana l’accesso al fondo di rotazione per la demolizione degli immobili abusivi solo all’indomani dell’avvio dell’attività ispettiva presso il comune di Randazzo. Lo Sgroi, dal canto suo, ha dichiarato, per vero laconicamente, ‘di aver fatto tutto ciò che era in suo potere per evitare che i fabbricati rurali abusivi restassero nella disponibilità di soggetti che potessero servirsene per usi vietati dalla legge. A seguito di segnalazione dei Carabinieri, personale della Polizia Municipale di Randazzo si era recato in c.da Dagala Longa, verificando che i fabbricati utilizzati da soggetti appartenenti alla famiglia Sangani (indagati nell’ambito dell’operazione ‘Terra Bruciata’) erano stati abusivamente realizzati su terreni di proprietà comunale (zona parco dell’Etna); da accertamenti presso gli uffici comunali emergeva che i suddetti manufatti abusivi erano già stati oggetto di ordinanze di sgombero e demolizione negli anni ’80 e ’90, rimaste inseguite. Con nota del 17.11.2022 (all. 22) il sindaco aveva richiesto agli uffici compenti di predisporre gli atti necessari al fine di procedere con urgenza alla demolizione dei manufatti, onde evitare il perpetrarsi del loro utilizzo per scopi illeciti, incaricando il segretario comunale della supervisione. Nell’esecuzione delle ordinanze di sgombero, il Comune aveva incontrato difficoltà legate ai costi di demolizione, sicchè il sindaco aveva richiesto l’ausilio del Prefetto (con nota del 30.1.2023, all. 23); nelle more, in data 12.4.2023, aveva provveduto a richiedere il finanziamento al fondo regionale di rotazione per la demolizione degli immobili abusivi (all. 24); l’ex sindaco precisava che tale domanda non era avvenuta in data anteriore perché il relativo bando era stato pubblicato il 27.3.2023; nel mese di giugno 2024 il Prefetto aveva declinato la propria competenza ad intervenire in ausilio dell’amministrazione comunale per la demolizione. Ottenuto il finanziamento regionale, nel mese di dicembre 2023 il sindaco aveva emanato l’atto di indirizzo al fine di sollecitare il capo del settore competente all’espletamento delle procedure per l’individuazione della ditta che doveva procedere alla demolizione (all. 29) ma nessuna ditta aveva formulato offerte (all. 30 e 31); successivamente era stata indetta una nuova gara”.
“La linea difensiva seguita dallo Sgroi non solo non coglie nel segno, ma vieppiù conferma in maniera chiara l’infiltrazione di tipo mafioso nel tessuto istituzionale locale. Lo Sgroi, infatti, sindaco dal 2018, pur in presenza di tre ordinanze di demolizione dei manufatti abusivi adottate nei confronti dei fratelli Salvatore ed Oliviero Sangani e del padre Francesco Paolo, emesse tra il 1987 ed il 1991 e mai eseguite, non ha assunto alcuna iniziativa sino al mese di gennaio del 2023 (quindi, dopo l’operazione ‘terra bruciata’ e dopo l’avvio dell’attività ispettiva), allorquando, all’evidente fine di rinviare ulteriormente la demolizione, si è rivolto alla Prefettura di Catania per richiedere l’intervento dell’Esercito; istanza, del tutto priva di alcun giustificazione e di supporto normativo, e, pertanto, rigettata. Solo a quel punto il sindaco ha deciso di richiedere il finanziamento al fondo regionale di rotazione per la demolizione degli immobili abusivi (demolizione poi avvenuta dopo lo scioglimento del consiglio comunale e durante la gestione commissariale)”.
“Non condividendosi le argomentazioni svolte dal Tribunale di Catania, è opinione di questa Corte d’appello che l’episodio in commento, sia per cronologia degli eventi, sia per la caratura criminale dei destinatari dei plurimi ordini di demolizione, sia fortemente sintomatico della prolungata e risalente infiltrazione mafiosa all’interno degli organi comunali di Randazzo tanto che per la demolizione dei manufatti abusivi edificati dai componenti della famiglia Sangani sul terreno comunale sito in c.da Dagala Longa è stato necessario attendere ben oltre 35 anni. Se è chiaro che di ciò non può ritenersi responsabile solo lo Sgroi, allo stesso può comunque imputarsi una ingiustificata condotta omissiva almeno a decorrere dal 2018, allorquando è asceso per la prima volta alla carica di primo cittadino di Randazzo. Come definire se non evidente sintomo di infiltrazione mafiosa la condotta dello Sgroi che, dopo una iniziale e totale inerzia (dal 2018 al gennaio 2023), ha, di poi, tentato una strada destinata al sicuro insuccesso (la richiesta rivolta alla Prefettura) e solo alla fine si è rivolto alla regione siciliana per accedere al fondo di rotazione. La condotta omissiva dello Sgroi, consumata in un comune a forte densità mafiosa, assume un significato simbolico estremamente preciso e destinato ad essere amplificato in ragione del ristretto ambito territoriale in cui si è svolta (il comune di Randazzo conta circa 10.000 abitanti). Essa conferma pienamente la forte infiltrazione mafiosa nelle istituzioni comunali, succubi e timorose della stessa al punto tale dal non dare esecuzione agli ordini di demolizione di fabbricati abusivi realizzati su terreni di proprietà comunale”.
“Sminuire la gravità di tale episodio e negare che lo stesso si inquadri tra quelli che giustificano la declaratoria di incandidabilità ex art.143 TUEL appare impresa davvero ardua. L’ulteriore episodio richiamato dal Ministero reclamante e che dà piena conferma di quanto appena sopra esposto è quello che coinvolge oltre allo Sgroi anche il Proietto Batturi e che concerne la mancata assegnazione degli immobili confiscati definitivamente alla mafia ed, in particolare, a Rosta Francesco ed in atto in uso al figlio Rosta Giuseppe, che vi ha anche edificato un manufatto abusivo”.
“Per come si ricava dalla lettura degli atti del fascicolo, in occasione di una conferenza dei servizi organizzata per decidere in merito alla assegnazione di alcuni immobili confiscati alla mafia ed alla quale sono stati invitati a partecipare diversi comuni siciliani, il Proietto Batturi, all’epoca assessore ai ll.pp. ed intervenuto per il comune di Randazzo, si è limitato a riservare la risposta, che, dopo un sopralluogo, è stata negativa adducendo la distanza tra il terreno ed il centro abitato e la accertata presenza di animali al suo interno. Se è pur vero – siccome indicato dal Tribunale – che ‘a seguito della confisca definitiva, i beni diventano di proprietà dello Stato e sono gestiti dall’Agenzia per i beni confiscati, sicchè non appare possibile un loro asservimento agli interessi della criminalità’, non sfuggono ad un qualunque osservatore le seguenti circostanze che sono sintomatiche del vero motivo posto a base del diniego:”
“1) la distanza tra il lotto di terreno ed il centro del comune non costituisce certo una valida giustificazione e non è dato comprendere in che misura tale dato possa avere influenzato negativamente la scelta del comune;
2) parimenti risulta difficile trovare un valido motivo nella pur accertata presenza di animali, che ben avrebbero potuto essere spostati ed affidati a terzi. Non va, peraltro, sottaciuto, per come dedotto dal Ministero reclamante e non contestato dai reclamati, che già in occasione della conferenza dei servizi alcune cooperative sociali avevano manifestato agli organi comunali la piena disponibilità alla gestione del terreno. Come non qualificare altrimenti, se non come chiara manifestazione dell’infiltrazione mafiosa, la scelta dello Sgroi e del Proietto Batturi di rifiutare l’assegnazione di un terreno confiscato definitivamente alla mafia. Gesto di fortissimo impatto sociale e sintomatico di una scelta di campo che gli odierni reclamati non hanno voluto/potuto compiere, preferendo che lo stesso rimanesse nella disponibilità della famiglia Rosta, e che non avrebbe, peraltro, comportato oneri economici di sorta, attesa la disponibilità alla gestione manifestata da alcune cooperative”.
“PROIETTO BATTURI NUNZIO GERARDO. Oltre a quanto appena sopra esposto con riguardo a Proietto Batturi Nunzio Gerardo non può che richiamarsi anche l’episodio risalente all’anno 2017 allorquando il predetto ebbe ad accompagnare Spampinato Santo Alessandro in carcere per costituirsi. A prescindere dalla indubbia liceità della condotta, non può non stigmatizzarsi, anche in questo caso, la sintomaticità della stessa in ragione della indiscussa caratura criminale che lo Spampinato aveva nel 2017, del tutto irrilevante apparendo la sua successiva condotta intramuraria che ha giustificato la revoca da parte del Magistrato di sorveglianza della misura di prevenzione che doveva essere scontata dopo la liberazione. Parimenti non degna di rilievo la collocazione cronologica del fatto (2017), cioè ben prima che il Proietto Batturi assumesse la carica pubblica, che è invece indicativa di una frequentazione risalente nel tempo”.
“Gli episodi sin qui analizzati costituiscono, come esposto in precedenza, quelli degni di rilievo, che impongono l’accoglimento del reclamo e ciò proprio in forza della giurisprudenza – condivisa da questa Corte – richiamata dal primo Giudice, che, al riguardo si è così pronunciato: ‘Circa la natura e la funzione dell’istituto va richiamato l’orientamento della giurisprudenza di legittimità, secondo cui ‘la misura interdittiva della incandidabilità dell’amministratore responsabile delle condotte che hanno dato causa allo scioglimento del consiglio comunale conseguente a fenomeni di infiltrazione di tipo mafioso o similare nel tessuto istituzionale locale, privando temporaneamente il predetto soggetto della possibilità di candidarsi nell’ambito di competizioni elettorali destinate a svolgersi nello stesso territorio regionale, rappresenta un rimedio di extrema ratio volto ad evitare il ricrearsi delle situazioni che la misura dissolutoria ha inteso ovviare, e a salvaguardare così beni primari dell’intera collettività nazionale – accanto alla sicurezza pubblica, la trasparenza e il buon andamento delle amministrazioni comunali nonché il regolare funzionamento dei servizi loro affidati, capaci di alimentare la ‘credibilità’ delle amministrazioni locali presso il pubblico e il rapporto di fiducia dei cittadini verso le istituzioni -, beni compromessi o messi in pericolo, non solo dalla collusione tra amministratori locali e criminalità organizzata, ma anche dal condizionamento comunque subito dai primi, non fronteggiabile, secondo la scelta non irragionevolmente compiuta dal legislatore, con altri apparati preventivi o sanzionatori dell’ordinamento” (Cass. sez. un. n. 1747/2015)”.
“Secondo un consolidato orientamento della Suprema Corte, ‘la natura dell’incandidabilità prevista dal D.Lgs. n. 267 del 2000, art. 143, comma 11, in caso di scioglimento del consiglio comunale o provinciale per infiltrazioni mafiose, a carico degli amministratori responsabili delle condotte che abbiano dato causa al predetto provvedimento, è stata già presa in esame dalle Sezioni Unite di questa Corte, le quali vi hanno ravvisato una misura interdittiva volta a porre rimedio al rischio che quanti abbiano cagionato il grave dissesto dell’ente possano aspirare a ricoprire cariche identiche o simili a quelle precedentemente rivestite, e in tal modo perpetuare potenzialmente l’ingerenza inquinante nella vita delle amministrazioni democratiche locali. L’autonomia del procedimento di applicazione e la diversità dei presupposti rispetto a quello penale hanno indotto ad escludere il carattere propriamente sanzionatorio dell’incandidabilità e la riconducibilità della stessa all’ambito strettamente penalistico, essendosi rilevato che ai fini della relativa dichiarazione non si richiede che la condotta dell’amministratore dell’ente locale integri gli estremi del reato di partecipazione ad associazione mafiosa o concorso esterno nella stessa, ma è sufficiente che egli sia stato in colpa nella cattiva gestione della cosa pubblica, aperta alle ingerenze ed alle pressioni delle associazioni criminali operanti sul territorio”.
“E’ stata quindi riconosciuta la funzione sostanzialmente preventiva della misura, qualificata come un rimedio di extrema ratio, in quanto volta ad evitare il ricrearsi delle situazioni cui il provvedimento di scioglimento ha inteso ovviare, e quindi a salvaguardare beni primari della collettività nazionale, identificabili nella legalità ed imparzialità dell’amministrazione e nella sua credibilità presso il pubblico, e cioè nel rapporto di fiducia dei cittadini verso l’istituzione, incrinato da fenomeni di infiltrazione e condizionamento riconducibili alla condotta degli amministratori (cfr. Cass., Sez. Un., 30/01/2015, n. 1747; al riguardo, v. anche Cass., Sez. 1, 3/08/2017, n. 19407)”.
“E’ noto peraltro che la natura extrapenale della misura, mentre nell’ambito del diritto interno consente di escludere l’integrale assoggettamento della stessa al regime proprio della sanzione penale, non risulta di per sé sufficiente ad impedire l’applicazione dei principi stabiliti dalla CEDU, tenuto conto della maggiore ampiezza della nozione di ‘materia penale” dalla stessa emergente, alla stregua dell’interpretazione fornitane dalla Corte EDU, che costituisce il necessario termine di riferimento anche per il Giudice nazionale: ai fini della predetta nozione, la natura della misura e lo scopo per cui è comminata costituiscono infatti soltanto uno degli aspetti da tenere in conto, dovendosi avere riguardo anche alla classificazione formale della violazione che ne determina l’applicazione, ovverosia della qualificazione della stessa come reato o altro tipo d’illecito da parte dell’ordinamento nazionale, nonché alla severità delle conseguenze che quest’ultimo vi ricollega (cfr. per tutte Corte EDU, sent. 8/06/1976, Engel c. Paesi Bassi; 21/02/1984, Ozturk c. Germania; 23/11/2006, Jussila c. Finlandia)”.
“Anche in quest’ottica, tuttavia, la misura prevista dalla norma in esame non appare riconducibile al concetto di sanzione penale, in quanto la sua applicazione non è conseguenza automatica di una condanna penale, ma richiede un procedimento autonomo, il cui oggetto è costituito, come si è detto, dall’accertamento non già di un reato, ma di una condotta colposa dell’amministratore che, pur senza sconfinare necessariamente nell’illecito, abbia oggettivamente favorito l’ingerenza di associazioni criminali o il condizionamento dalle stesse esercitato sulla gestione dell’ente territoriale; l’efficacia della misura è poi contenuta entro ristretti limiti spaziali e temporali, in quanto l’incandidabilità è limitata alle elezioni regionali, provinciali, comunali e circoscrizionali che si svolgono nella regione nel cui territorio si trova l’ente interessato dallo scioglimento, e non si estende oltre il primo turno elettorale successivo allo scioglimento”.
“La portata afflittiva della misura, d’altronde, oltre a rappresentare da sola un indice non decisivo ai fini della sua inclusione nella materia penale (in quanto, come riconosciuto dalla stessa Corte EDU, numerose misure extrapenali o preventive possono avere un impatto significativo sulla situazione personale del soggetto coinvolto: cfr. Corte EDU, sent. 17/12/2009, M. c. Germania; 7/12/2006, Ven der Velden c. Paesi Bassi; 9/02/1995, Welch c. Regno Unito), deve costituire oggetto di particolare valutazione nel caso in cui i relativi effetti si traducano in una limitazione dell’elettorato passivo: pur affermando che l’art. 3 del Primo Protocollo addizionale alla CEDU, nel prevedere l’impegno ad organizzare libere elezioni in condizioni tali da assicurare la libera espressione dell’opinione del popolo, stabilisce un principio di primaria importanza per il sistema della Convenzione, il quale implica il diritto soggettivo di votare e candidarsi per l’elezione, la Corte EDU ha infatti riconosciuto che gli Stati contraenti godono in proposito di un ampio margine di apprezzamento, dovendosi tenere conto delle peculiarità storiche, politiche e culturali di ciascun ordinamento (cfr. Corte EDU, sent. 16/03/2006, 2danoka c. Lettonia; 6/10/2005, Hirst c. Regno Unito; 2/03/ 1987, Mathieu-Mohin e Clerfayt c. Belgio), manifestando l’esigenza di una valutazione più prudente delle restrizioni imposte al diritto di elettorato passivo, rispetto a quella delle limitazioni previste per l’elettorato attivo”.
“Premesso che il diritto di presentarsi alle elezioni deve poter essere circondato, nella sua disciplina ad opera del legislatore nazionale, da particolari cautele, ha quindi escluso la natura penale di talune restrizioni, in quanto, pur essendo collegate alla commissione di un illecito, apparivano ispirate dalla prevalente esigenza di proteggere l’integrità delle istituzioni pubbliche (cfr. Corte EDU, sent. 6/01/2011, Paksas c. Lituania; 24/06/2008, Adamson c. Lettonia)” (Cass. n. 15038/2018)”.
“Alla luce dei principi elaborati dalla giurisprudenza di legittimità e dalla CEDU, pertanto, il procedimento volto all’accertamento dell’incandidabilità ha carattere autonomo rispetto al procedimento penale e, pur prescindendo dall’accertamento dell’esistenza del reato, costituisce l’extrema ratio in quanto incide, comprimendolo, sul primario diritto di elettorato passivo. Esso è diretto ad evitare il ricrearsi di situazioni cui il provvedimento di scioglimento ha inteso ovviare, e quindi a salvaguardare beni primari della collettività nazionale, identificabili nella legalità ed imparzialità dell’amministrazione e nella sua credibilità presso il pubblico, e cioè nel rapporto di fiducia dei cittadini verso l’istituzione, incrinato da fenomeni di infiltrazione e condizionamento riconducibili alla condotta degli amministratori; in relazione a siffatta funzione, si richiede l’accertamento della sussistenza di una condotta (anche) colposa dell’amministratore che, pur non sconfinando nell’illecito, abbia comunque ‘favorito l’ingerenza di associazioni criminali o il condizionamento dalle stesse esercitato sulla gestione dell’ente territoriale”.
“La misura in questione, dunque, non ha natura di sanzione a carico degli amministratori che con la propria condotta abbiano dato causa allo scioglimento del consiglio comunale, giacché la temporanea compromissione del diritto di elettorato passivo (che giustifica la giurisdizione del giudice ordinario) che può seguire alla pronuncia del Tribunale adito su iniziativa del Ministro dell’Interno si spiega in ragione della sua finalità cautelativa e di prevenzione, volta cioè ad escludere l’eventualità che gli amministratori ‘responsabili’ della dissoluzione, partecipando alla tornata elettorale successiva allo scioglimento stesso, possano perciò stesso rendere privo di reale efficacia il provvedimento di rigore, perpetuando l’ingerenza inquinante”.
“Una volta chiarita la natura e la funzione dell’istituto in esame, va ricordato, sotto il profilo della disciplina, che la declaratoria di incandidabilità riguardi gli amministratori responsabili delle condotte che hanno dato causa allo scioglimento del consiglio comunale e che, ai fini della dichiarazione di incandidabilità, il tribunale valuta la sussistenza degli elementi indicati nel comma 1 con riferimento agli amministratori indicati nella proposta stessa (comma 11)”.
“Il richiamo al comma 1 dell’art. 143 T.U.E.L. (secondo cui ‘Fuori dai casi previsti dall’articolo 141, i consigli comunali e provinciali sono sciolti quando, anche a seguito di accertamenti effettuati a norma dell’articolo 59, comma 7, emergono concreti, univoci e rilevanti elementi su collegamenti diretti o indiretti con la criminalità organizzata di tipo mafioso o similare degli amministratori di cui all’articolo 77, comma 2, ovvero su forme di condizionamento degli stessi, tali da determinare un’alterazione del procedimento di formazione della volontà degli organi elettivi ed amministrativi e da compromettere il buon andamento o l’imparzialità delle amministrazioni comunali e provinciali, nonché il regolare funzionamento dei servizi ad esse affidati, ovvero che risultino tali da arrecare grave e perdurante pregiudizio per lo stato della sicurezza pubblica’) consente di delimitare l’oggetto dell’accertamento che in concreto il tribunale è chiamato ad operare. È richiesta, in particolare, la presenza di ‘elementi’ o ‘forme di condizionamento’ che consentano di individuare la sussistenza di un rapporto fra gli amministratori e la criminalità organizzata; elementi che se, per un verso, non siano tali da concretarsi in forme di responsabilità penali degli amministratori, come detto, per altro verso è necessario che si pongano come ‘concreti univoci e rilevanti’ ed assumano valenza tale da determinare un’alterazione del procedimento di formazione della volontà degli organi amministrativi e da compromettere l’imparzialità delle amministrazioni comunali e provinciali” (Cons. Stato n. 126/2013)”.
“Anche da ultimo la Corte di cassazione ha ribadito che “Secondo l’orientamento di questa Corte che il Collegio intende qui ribadire, l’accertamento della incandidabilità degli amministratori, ai sensi dell’art. 143, comma 11, del TUEL di cui al d.lgs. n. 267/2000, attiene alle condotte che hanno dato causa allo scioglimento dell’organo consiliare, non alla valutazione del provvedimento amministrativo di scioglimento dell’organo, che quelle hanno pure generato, ed è disposto, ai sensi del precedente comma 3, del menzionato art. 143 TUEL, con d.P.R. (‘su proposta del Ministro dell’interno, previa deliberazione del Consiglio dei ministri entro tre mesi dalla trasmissione della relazione di cui al comma 3, ed è immediatamente trasmesso alle Camere’)”.
“In sostanza, la valutazione della legittimità del provvedimento Presidenziale fuoriesce dal thema decidendum, costituendo l’atto un mero presupposto dell’indagine, svolta in sede amministrativa, che ha ad oggetto, invero, la responsabilità degli amministratori dell’ente locale con riferimento alle loro condotte (omissive o commissive) che hanno dato causa allo scioglimento dell’organo consiliare o ne siano state una concausa (Cass. 3024/2019; Cass. S.U. 1747/2015; Cass. 19407/2017), e tale misura non è in contrasto con la Costituzione, attesa la sua temporaneità”.
“Per quel che più ora interessa, va rimarcato che l’elemento soggettivo dell’amministratore consiste anche solo nel non essere riuscito a contrastare efficacemente le ingerenze e pressioni delle organizzazioni criminali operanti nel territorio, mentre l’elemento oggettivo richiede la verifica di una condotta inefficiente, disattenta ed opaca che si sia riflessa sulla cattiva gestione della cosa pubblica”.
“2.2. Nel caso di specie, la Corte d’appello, pur correttamente premettendo l’assenza di ogni automatismo tra scioglimento del singolo consiglio comunale e declaratoria di incandidabilità degli amministratori, non si è attenuta agli altri principi sopra ricordati. In particolare, la Corte di merito ha accertato con certezza ‘un uso distorto della macchina amministrativa e la mancanza di adeguati controlli” (pag. 7 della sentenza impugnata), vale a dire l’esistenza di un’oggettiva situazione di cattiva gestione della cosa pubblica, tale da rendere possibili ingerenze esterne nel suo ambito e un concreto asservimento dell’amministrazione alle pressioni inquinanti delle associazioni criminali operanti sul territorio. A fronte di un tale accertamento, la Corte territoriale ha di seguito erroneamente valorizzato il fatto che non fosse ‘emerso alcun collegamento, diretto o indiretto, dei reclamati con esponenti della criminalità organizzata’ ed ha affermato, altrettanto erroneamente, che non fosse rilevante, ai fini dell’incandidabilità, la ‘condotta colposamente omissiva dei reclamati che avrebbe consentito il condizionamento dell’azione amministrativa da parte dell’associazione mafiosa”.
“Come già affermato da questa Corte, rispetto alla figura apicale dell’amministrazione comunale costituita dal sindaco o alla figura del vice sindaco, al di là della mancanza di frequentazioni e rapporti con esponenti della Criminalità organizzata locale o di agevolazioni dirette della stessa, occorre comunque estendere l’indagine alla condotta da questi tenuta nell’ambito amministrazione municipale al fine di acclarare rapporto eventualmente dato (con azioni od omissioni) nel provocare la situazione che aveva condotto allo scioglimento dell’organo assembleare (Cass. 2749/2021; Cass. 31550/2023)”.
“Nello svolgimento di questa indagine si deve considerare che il sindaco ed il vice sindaco sono chiamati ad esercitare, nelle rispettive specifiche competenze, il potere/dovere: di vigilare e sovrintendere al funzionamento dei servizi e degli uffici e all’esecuzione degli atti, ai sensi dell’art. 50, comma 2, TUEL; di indirizzare e controllare l’operato dei soggetti a cui era affidato il compito di dare attuazione alle scelte deliberate dall’amministrazione, ex art. 107, comma 1, TUEL; più in generale, di sovrintendere alla vigilanza su tutto quanto possa interessare la sicurezza e l’ordine pubblico, a mente dell’art. 54, comma 1, lett. c) TUEL. La trasgressione di questi doveri di vigilanza, all’evidenza, non solo è capace di determinare una situazione di cattiva gestione dell’amministrazione comunale, ma rende possibili ed agevola ingerenze al suo interno delle associazioni criminali, finendo per creare le condizioni per un asservimento dell’amministrazione municipale agli interessi malavitosi”.
Ne discende che – contrariamente all’assunto della Corte territoriale – l’accertamento del venir meno, anche solo colposo, da parte dell’amministratore locale agli obblighi di vigilanza riconnessi alla sua carica è di per sé sufficiente a integrare i presupposti per l’applicazione della misura interdittiva prevista dall’art. 143, comma 11, del d.lgs. n. 267/2000, così come risultante dalla sostituzione operata dall’art. 2, comma 30, della legge n. 94/2009, proprio perché la finalità perseguita dalla norma è quella di evitare il rischio che quanti abbiano cagionato il grave dissesto dell’amministrazione comunale possano aspirare a ricoprire cariche identiche o simili a quelle rivestite e, in tal modo, potenzialmente perpetuare l’ingerenza inquinante nella vita delle amministrazioni democratiche locali (Cass. n. 2749/2021)”.
In altre parole, la Corte d’appello ha effettuato una valutazione atomistica (Cass. 25380/2023) e soprattutto, pur avendo sicuramente accertato un uso distorto della macchina amministrativa e l’assenza di adeguati controlli, ha preteso la prova di un collegamento diretto e indiretto con le associazioni mafiose e della volontà di favorire il sodalizio criminale, mentre la dichiarazione di incandidabilità prevista dall’art. 143, comma 11, d.lgs. n. 267 del 2000 non richiede che la condotta dell’amministratore dell’ente locale integri gli estremi del reato di partecipazione ad associazione mafiosa o di concorso esterno alla stessa, essendo sufficiente che egli, da un punto di vista soggettivo, non sia riuscito a contrastare efficacemente ingerenze e pressioni delle organizzazioni criminali operanti nel territorio e da un punto di vista oggettivo, abbia tenuto una condotta inefficiente, disattenta ed opaca che si sia riflessa sulla cattiva gestione della cosa pubblica (Cass. 8056/2022; Cass. 31550/2023 citata)”.
“Va aggiunto che, come pure già affermato da questa Corte e per quanto rileva, specificamente, anche per le posizioni di omissis, assessore alle politiche sociali per circa un anno (dal 2016 al 2017) e omissis, assessore alla pubblica istruzione, attività produttive e sport, oltre che per quella del sindaco omissis, incorre nella sanzione di incandidabilità di cui all’art. 143, comma 11, del d.lgs. n. 267 del 2000, il singolo amministratore che, pur non essendo direttamente responsabile delle condotte che hanno dato causa allo scioglimento dell’ente, indipendentemente dalle attribuzioni dell’organo di cui faceva parte, abbia comunque concorso a determinare quell’effetto, fornendo un contributo alla condotta, commissiva od omissiva, degli altri amministratori cui competeva rispettivamente di assumere o non assumere determinazioni rilevanti a tal fine (Cass. 24566/2022), sicché l’indagine di merito dovrà svolgersi anche in relazione ai suddetti profili’ (v. Cass. 14356/24)”.
“E’, invero, ferma opinione di questa Corte d’appello che le condotte sopra descritte, valutate unitariamente, abbiano minato la legalità e l’imparzialità dell’amministrazione ed inciso la sua credibilità presso il pubblico, e cioè il rapporto di fiducia dei cittadini verso l’istituzione, incrinato da fenomeni di infiltrazione e condizionamento riconducibili alla condotta degli amministratori e siano stati la causa del disposto scioglimento del consiglio comunale di Randazzo”.
“Per le superiori ragioni il reclamo deve essere accolto con conseguente declaratoria di incandidabilità
dei reclamati ex art.143 D. L.vo 267/00. Le spese del presente grado di giudizio seguono la soccombenza”.
“P. Q. M. La Corte di Appello di Catania, prima sezione civile, definitivamente pronunciando, accoglie il reclamo proposto dal Ministero dell’Interno avverso il decreto emesso in data 2.1.2025 dal Tribunale di Catania e, per l’effetto, dichiara Sgroi Francesco Giovanni Emanuele e Proietto Batturi Nunzio Gerardo incandidabili ai sensi e nei limiti di quanto previsto dall’art.143 D. L.vo 267/00. Condanna i reclamati, in solido tra loro, al pagamento delle spese del presente grado di giudizio liquidate in euro 4.000,00 per compensi, oltre accessori. Così deciso in Catania, nella camera di consiglio della prima sezione civile della Corte di appello, il 2.4.2025. Il Presidente rel/est dott. Nicola La Mantia”
Redazione
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