Un milione di persone. È quanto si calcola che ogni anno, fra devoti e turisti, partecipano a Catania a questo rito unico al mondo, che è la festa di Sant’Agata. Un rito che per luci, fede e folklore è stato paragonato alla Settimana Santa di Siviglia o al Corpus Domini di Cuzco, in Perù.
Il 3, il 4 e il 5 febbraio la festa entra nel vivo, nel senso che per molti, a Catania, Sant’Agata è come se si vivesse trecentosessantacinque giorni l’anno. Ma vediamo come si svolgono i festeggiamenti in questi tre giorni.
3 Febbraio. Il primo giorno è riservato all’offerta delle candele. Si tratta di una usanza popolare, secondo la quale i ceri donati devono essere alti e pesanti quanto la persona che chiede la protezione. Alla processione per la raccolta della cera partecipano le maggiori autorità religiose, civili e militari. Due carrozze settecentesche, una volta di proprietà del Senato, a capo della città, e undici “candelore” (immensi ceri che sono l’emblema delle corporazioni o dei mestieri), sono recate in corteo dai portatori dei vari quartieri.

La carrozza del Senato catanese durante i festeggiamenti in onore di Sant’Agata. Sopra: la statua della Patrona di Catania
Tutto si conclude (per quanto concerne la prima giornata) di sera con lo spettacolo dei fuochi pirotecnici in piazza Duomo, grande tradizione che simboleggia il martirio sulla brace, da cui deriva il fatto che Sant’Agata vigili sempre sul fuoco.
4 Febbraio. Il giorno in cui le emozioni, la gioia, le lacrime sono un tutt’uno per questo popolo che si riunisce attorno alla santa, perché è nella santa che si identifica e nella quale ripone speranze, grazie, fede, certezze. Alle prime luci dell’alba le strade si riempiono di devoti che indossano il tradizionale “ sacco ” (un camice bianco contrassegnato da un cordoncino collocato all’altezza della vita), un berretto di velluto nero, dei guanti e un fazzoletto bianchi. Secondo la tradizione il “sacco” è l’emblema delle camicie da notte indossate dai catanesi quando, nel 1126, tornarono le reliquie provenienti da Costantinopoli. Ma secondo alcuni, questo abbigliamento riveste un significato liturgico: il berretto nero ricorderebbe la cenere di cui si cospargevano il capo i penitenti e il cordoncino in vita il cilicio.
Con tre diverse chiavi, custodite da tre differenti persone, si apre il cancello di ferro che protegge le reliquie all’interno della cattedrale: una è tenuta dal tesoriere, una dal cerimoniere, un’altra dal priore del capitolo della cattedrale. È uno dei momenti più emozionanti, forse il più toccante dell’intera festa: dopo un anno viene aperto il cancello della cameretta, dove è custodito il Busto. È in quegli attimi che i catanesi vivono momenti di grande intensità emotiva: gente proveniente da tutti i quartieri della città si raccoglie in cattedrale e piange, prega, invoca la Patrona.
Il busto, pieno di oro e di altri gioielli, viene alzato sul fercolo d’argento (peso: 17 quintali quando è vuoto, di 30 quando vengono caricati lo scrigno, il busto e la cera) per la celebrazione della santa messa da parte dell’arcivescovo, prima della solenne processione per le vie della città.
Quando Agata, dopo il pontificale, viene posta all’esterno, comincia la parte del rito più folkloristica: il “gioco fuoco”, le “bombe”, i “trik trak”, insomma gli echi tipici di una festa straordinaria. È in quel momento che le reliquie della santa vengono caricate sul fercolo e portate, assieme alla statua, in processione. Quattromila o cinquemila persone trainano la pesante macchina al coro di “Cittadini, viva sant’Agata”, come a voler dire che sant’Agata è viva ed è tra noi.
Il “ giro ” del 4 dura tutto il giorno. Si attraversano i luoghi del martirio, luoghi che “parlano”, come se volessero narrare – basola per basola – le vicende della santa. Significativa la sosta alla “marina ”, dove i catanesi assistettero, impotenti e tristi, alla partenza delle reliquie per Costantinopoli.

Un altro momento della grande processione
Altra sosta evocativa: la “colonna della peste”, simbolo del miracolo di sant’Agata (1743), quando la città fu salvata dalla peste.
A notte fonda si conclude il “giro” e il fercolo fa ritorno in cattedrale.
5 Febbraio. I garofani rossi del giorno precedente (simboli del martirio) posti sul fercolo il giorno prima, vengono tolti e sostituiti da quelli bianchi della purezza. In tarda mattinata viene celebrata la messa solenne.
È il tramonto quando inizia la seconda parte della processione che ora attraversa il centro e arriva fino al “ Borgo ”, un rione che per i catanesi riveste un significato particolare: qui, dopo l’eruzione del 1669, molti cittadini dei paesi pedemontani si rifugiarono per sfuggire all’evento catastrofico.
La processione poi scende per la via Etnea e arriva ai Quattro Canti. Gira a destra e vive un altro momento solenne, uno dei più attesi: ‘a cchianata di san Giulianu, la salita della via San Giuliano, una strada caratteristica, composta di basole antiche e sita nel cuore del centro storico di Catania, che presenta una pendenza considerevole. È allora che i cittadini più devoti devono dare prova del loro “coraggio” trascinando il fercolo con andatura sostenuta per dimostrare – secondo la tradizione – che anche gli ostacoli più difficili vanno superati.
Quindi il fercolo svolta per via Crociferi ed effettua l’ultima sosta, una delle più toccanti: le suore benedettine, dietro i cancelli del sagrato del convento, intonano dei canti in onore di Sant’Agata.
A notte fonda i fuochi artificiali dicono che siamo alla fine dei festeggiamenti. Adesso la Santa viene riposta nella sua “cameretta”, con il reliquiario e lo scrigno, adesso Catania vive un momento di tristezza e di soddisfazione. Di tristezza perché la festa più attesa, più bella, più gioiosa dell’anno si conclude, di soddisfazione perché i cittadini hanno vissuto in simbiosi con la loro “santuzza” questi giorni. Arrivederci all’anno prossimo.
Redazione
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