Un copione che si ripete. Il boss latitante da decenni, catturato mentre fa colazione al bar, in attesa di entrare in una clinica dove deve sottoporsi a terapia per il tumore al colon che lo aggredito qualche tempo fa. Non nel cul de sac del mondo, ma a casa sua, a Palermo, a un centinaio di chilometri dal suo paese in provincia di Trapani, Castelvetrano, dove Matteo Messina Denaro, in questi trent’anni, è stato visto tante volte e da dove ha comandato per l’esecuzione di stragi, di delitti eccellenti e di tanto altro. Come era successo al padre Francesco, ritenuto nel 1947 uno degli esecutori della prima strage di Stato assieme alla banda di Salvatore Giuliano, Portella della Ginestra, non un eccidio deciso da quattro bovari di Cosa nostra, ma decretato dall’altissima politica nazionale alla vigilia delle elezioni in cui – dopo il successo delle regionali – stavano per affermarsi “le sinistre”. Come piazza Fontana, come Bologna, come l’Italicus, come Capaci e come via D’Amelio. Quindi non un capomafia qualsiasi, Matteo Messina Denaro,ma un boss in grado di “fare politica” sia con “la politica”, che con la massoneria e i servizi segreti deviati. E di ricattare un sacco di gente. 

Un copione che si ripete. Anche nelle dichiarazioni di certi pezzi delle istituzioni che ipocritamente esultano per “la grande vittoria dello Stato”. Di quale Stato? Messina Denaro è ritenuto dai magistrati il “grande elettore” di certi personaggi politici che in questi trent’anni si sono annidati in parlamento, al governo, alla Regione Sicilia, in diversi Consigli comunali con quella coalizione di cui gli italiani ormai sanno vita morte e miracoli.

Un copione che si ripete. Come è successo con Totò Riina, con Nitto Santapaola, con Bernardo Provenzano. Tutti catturati nella propria terra. Riina – come Messina Denaro – nel pieno centro di Palermo; Santapaola e Provenzano in casolari di campagna vicini alle loro città di origine, rispettivamente Catania e Corleone. Messina Denaro e Provenzano addirittura accomunati dalla stessa patologia. Per la cura di quest’ultimo, un brillante urologo, Attilio Manca, secondo diversi pentiti, ci ha rimesso la vita, perché ha avuto la “colpa” di avere riconosciuto chi si nascondeva sotto il falso nome di Gaspare Troia. Chi conosce, oggi, i segreti che si celano sotto le false generalità di Andrea Bonafede, con il quale si presentava il boss di Castelvetrano?    

Un copione che si ripete. All’inizio degli anni Novanta, Paolo Borsellino, procuratore della Repubblica di Marsala, segnalò il nome di Matteo Messina Denaro al Tribunale per le Misure di prevenzione di Trapani. Che respinse la richiesta al mittente: “Messina Denaro è una persona di grande rispettabilità, frequenta i migliori salotti della Sicilia”. La cosa sfumò e successivamente il boss si diede tranquillamente alla latitanza. 

Un copione che si ripete. Il boss catturato quando ormai si sono rotti gli “equilibri interni”, probabilmente tradito da qualcuno – della fitta rete di protettori e  di fiancheggiatori – che adesso si candida a prenderne il posto. A proposito di protettori e di fiancheggiatori: siamo in attesa di sapere chi sono. Non tanto quelli di Cosa nostra, quanto (soprattutto) quelli delle istituzioni impegnati in questa eterna “trattativa” fra Stato e antistato per continuare a restare a galla. Vogliamo conoscerli subito, quei nomi, in modo da capire cosa è successo davvero dall’immediato dopoguerra ai giorni nostri in questo stranissimo Paese.   

Un copione che si ripete. Titoloni in prima pagina nei giornali e nei telegiornali. Ma a condizione che durino “lo spazio di un mattino”. Da domani tutto si inabisserà. Come prima e meglio di prima. E allora coraggio con i denari del Pnrr, dell’eolico e del traffico di droga. In attesa di sapere chi è il nuovo puparo.

Nella foto: Matteo Messina Denaro, secondo l’identikit diffuso dalle forze dell’ordine prima della sua cattura di oggi

Luciano Mirone