Chi non conosce cosa avviene nel resto del mondo finisce spesso col commettere il grossolano errore di immaginarlo simile al suo paese. E non si indigna se quello cresce e questo langue. Circa mezzo secolo fa (poco dopo lo sbarco sulla luna) per andare in treno da Catania a Palermo erano necessarie cinque ore; per Roma ne occorrevano 12, di cui quasi due per raggiungere Messina e quattro Villa San Giovanni; a Milano si approdava in circa venti, ventidue ore, quando andava bene, con la “Freccia del Sud”.

Se da Trapani poi si aveva necessità di recarsi a Siracusa e viceversa bisognava viaggiare anche di notte o cercare un albergo dove dormire. Ancora oggi, in Sicilia, continuiamo a impiegare quasi gli stessi tempi degli anni Settanta con Trenitalia.

Da più di un decennio, invece, da Milano Centrale a Roma Termini si “vola” con “Freccia Rossa” o con “Italo” in poco meno di tre ore. Il mondo corre avanti, il Nord ci doppia, ci lascia indietro e noi non ci indigniamo, accettando di continuare a viaggiare su un solo obsoleto binario.

E non va certamente meglio con la rete stradale, fra le peggiori dell’intero parco nazionale. Mentre al Nord e al Centro si sono costruite autostrade a tre e anche a quattro corsie, noi continuiamo ad aspettare rassegnati il miracoloso completamento della Palermo-Messina e della Catania-Ragusa, declassate intanto al rango di superstrade, perché già vecchie e pericolose.

Racconta Pino Aprile che se da Reggio Calabria partissero due fratelli diretti, uno a New York e l’altro a Bari, il primo avrebbe il tempo di atterrare e telefonare al secondo prima che questi arrivi. Ma, aggiungo io, se partissero da Messina, il primo farebbe anche in tempo a trasferirsi nel cuore della City, fare colazione e sistemarsi comodamente in hotel.

Siamo ormai ridotti a meno della periferia, nell’indifferenza di chi ci rappresenta a livello istituzionale. Quando, infatti, per raggiungere il centro si impiegano in treno o in macchina più di sette/otto ore, si scade al rango di colonia. Ma così è, purtroppo. E’ la storia che lo dice, almeno quella storia che non vuole convincerci a tutti i costi che il Sud è sottosviluppato, perché ci abitano i “terroni” e vi impera la mafia.

Eppure ci fu un tempo in cui il Sud era Nord e il Nord era Sud: e non bisogna andare più giù del 1860. All’università di Catania, negli anni Settanta, il chiarissimo professore Gastone Manacorda, contro il facile meridionalismo dominante, sosteneva, a ragione, che la colpa era anche del Sud, se i soldi dello Stato erano stati spesi prevalentemente al Nord.

La politica veicolava già allora le istanze di tutto il Paese, che erano di sviluppo a Settentrione e di paralisi a Sud. Si è così “strutturata” la spoliazione del Mezzogiorno, iniziata a partire dal 1860 (il Regno delle Due Sicilie aveva la terza economia d’Europa e il bilancio dello Stato risultava attivo!), con il dirottamento sistematico di risorse importanti verso il Settentrione (il Regno di Sardegna prima dell’impresa dei Mille versava sull’orlo della bancarotta!), col beneplacito dei nostri deputati in Parlamento.

Ma paradossalmente ciò non è stato né imposto né subito, perché conveniva a tutta la classe dirigente di allora. E oggi sembra che non sia cambiato molto: il cittadino meridionale non chiede impegni concreti a chi lo rappresenta e il politico continua spesso a promettere senza dare. Così, sentiremo riparlare impunemente di Ponte sullo Stretto e di potenziamento delle infrastrutture, tanto non costa niente farlo e la rendicontazione politica dalle nostre part non esiste.

Per dirla col Manzoni, “Noi uomini siam in generale fatti così: ci rivoltiamo sdegnati e furiosi contro i mali mezzani, e ci curviamo in silenzio sotto gli estremi; sopportiamo, non rassegnati, ma stupidi, il colmo di ciò che da principio avevamo chiamato insopportabile”.

Se avesse ragione il grande Lombardo, “i mali” quindi non ci indignerebbero perché ancora solo all’inizio o già irrimediabilmente “estremi”. D’altronde, i Siciliani, malgrado i pesci in faccia, continuano in maggioranza a non indignarsi. E soltanto pochissimi chiedono ai politici di turno, spesso sempre gli stessi, riciclati o no, cosa intendano fare per la loro Regione.

Assisteremo dunque all’ennesimo défilé di nuovi e vecchi imbonitori che confondono il pubblico col privato e considerano la politica un’opportunità con cui costruirsi una posizione personale, nell’indifferenza di chi continua a confondere servizi con favori? Verrà riproposta la passerella di scatole programmatiche spesso prive di vision e strategie risolutive?

Se così sarà, che tristezza, che rovina per la nostra Isola meravigliosa! Ecco perché è urgente indignarsi. Significherebbe soprattutto che il processo di decadenza non è irreversibile e darebbe un input importante alla voglia di riscatto. Diversamente, nel prossimo futuro, i nostri nipoti, come già i padri e i nonni, potrebbero ritrovarsi a parlare degli stessi problemi e a sperare ancora, per dirla con Edoardo, che “adda passà à nuttata”.

Nella foto: “il Quarto Stato” di Pellizza da Volpedo

Nino Pulvirenti