La sera era tranquilla. La brezza proveniente dallo Jonio rinfrescava l’aria afosa di quel 15 settembre 1921. La luna piena – secondo quanto riportano gli atti giudiziari – rischiarava il mare e la città.

Alle 20,30 Nino Martoglio fece ingresso all’ospedale Vittorio Emanuele di Catania, assieme alla moglie Elvira Schiavazzi e al figlio Luigi Marco di otto anni, che a Giardini Naxos, a un passo da Taormina, dove i Martoglio stavano trascorrendo la villeggiatura dal mese di luglio, aveva contratto il paratifo, malattia che all’epoca poteva portare alla morte.

Il commediografo indossa un doppio petto grigio, una paglietta, un paio di scarpe modello “Bulgaro” di colore bianco e marrone e reca il classico bastone da passeggio.

Per il ricovero di Luigi Marco si erano mobilitati in tanti – amici e soprattutto nemici di Nino, di  antica e di nuova data – i quali avevano riservato ai Martoglio l’intero padiglione di pediatria “Costanza Gravina” (in quel momento vuoto perché in fase di ristrutturazione) ubicato all’interno dell’ospedale, privo di pazienti, di letti, di arredamento e di luce.

Negli atti ufficiali c’è scritto che era stato Martoglio a rifiutare il ricovero del piccolo nei reparti ordinari  del nosocomio (anche quelli a pagamento), perorando vivacemente la sistemazione in quell’edificio pieno di carriole, di carrucole, di impastatrici, di operai nelle ore diurne, buio e deserto in quelle notturne.

Ma si tratta di carte ufficiali piene di menzogne e quindi da prendere con le pinze, nel senso che non è da escludere che la scelta di ricoverare il bambino in quel posto deserto e senza luce (quindi in un luogo ideale per eseguire un omicidio e camuffarlo da morte accidentale) sia partita da altri e non da Martoglio, per i motivi che vedremo. Così come non è da escludere che tutto sia avvenuto estemporaneamente e che in tutta fretta le autorità competenti abbiano cercato di “vestire il pupo” nel migliore dei modi. Una cosa è certa, anche se non ci sono prove del movente: si è trattato di un insabbiamento istituzionale, quindi di Stato. Del resto, nel momento in cui viene data per certa la morte accidentale, il fatto viene privato del movente, e questo la dice lunga sulle “menti raffinatissime” che ci sono dietro alla vicenda.   

Nel giro di poche ore si compra il mobilio e si appronta la luce elettrica che deve illuminare “solo” il corridoio e la stanza riservata al bambino e alla madre, nonché la camera attigua riservata all’infermiera Rosa Mangialli.

Quella sera il commediografo – dopo aver parlato con il direttore sanitario Gaetano Salemi e con l’infermiere capo Francesco Calì, con i quali era stato anche la mattina per preparare il ricovero – si trattiene per un’oretta con i familiari. Intorno alle 21 li saluta e va via. Da quel momento sparisce dalla faccia della terra.

Gli inquirenti sostengono che, dopo aver percorso un breve tratto di corridoio, egli apre una porta a sinistra, percorre una stanza completamente al buio, apre un’altra porta, percorre un’altra stanza completamente al buio, e un certo punto si trova al cospetto di una porticina, la apre e precipita nel vuoto. Già, il “vuoto”…

Il “vuoto” è un’altezza di circa tre metri e mezzo che separa l’ammezzato con il pavimento. Il pavimento – a detta dell’Autorità giudiziaria – è quello di un ascensore, quindi Martoglio, a loro avviso, è caduto nella tromba di un ascensore. Peccato che l’ascensore non c’è. I maggiorenti del nosocomio dicono che è in progettazione, ma non c’è e non ci sarà mai. Si tratta di un pozzo luce, che per cento anni viene spacciato per tromba di ascensore.

Per un secolo un sacco di storici, anche autorevoli, hanno preso per buona la versione ufficiale. E l’immaginario collettivo ha pensato che l’artista, presente nei piani alti dell’edificio centrale dell’ospedale, si sia schiantato al suolo della “tromba”. Una balla colossale.

Sì, perché uno che cade da tre metri e mezzo non può morire sul colpo. Eppure allora il dottor Giuseppe Riccioli (mica un medico legale, un medico e basta, per giunta dello stesso ospedale) scrisse che il commediografo era morto sul colpo, salvo a contraddirsi nella riga successiva, sostenendo che il decesso poteva risalire a molte ore dopo rispetto alla “caduta”. Ovviamente secondo le autorità di polizia non fu necessaria neanche un’autopsia per accertare scientificamente le cause della morte.

Senonché oggi il professor Cristoforo Pomara, ordinario di Medicina legale dell’Università di Catania – intervistato da L’Informazione nel corso delle dieci puntate che il giornale ha dedicato alla scomparsa di Martoglio – ribalta l’indagine ufficiale e afferma che la “ferita lacero-contusa alla fronte, con incavo, di cui parla Riccioli nella sua relazione, non è compatibile con una caduta da tre metri e mezzo, che avrebbe dovuto causare ben altre lesioni, che però non sono state descritte”.

E allora quella ferita con quell’incavo alla fronte da cosa è stato provocata? L’ipotesi scientificamente valida è quella di un corpo contundente (un bastone o una spranga). Quella fossa alla regione mediana della fronte si spiega così, secondo Pomara, a meno che sul pavimento non ci fossero degli spuntoni, ma di spuntoni, nel verbale di sopralluogo della polizia e del consulente tecnico d’ufficio (l’architetto Lanzerotti), non si parla.

Quindi?

Quindi l’esame esterno del cadavere non è stato eseguito secondo criteri scientifici. Quindi non è credibile. Quindi – siccome è stato considerato “decisivo” per accreditare la morte accidentale del poeta – non riteniamo di esagerare se parliamo di un depistaggio.

Mica l’unico. E’ tutta la ricostruzione eseguita dalla polizia, dalla magistratura, dal dottor Riccioli e dalla stampa locale (identificabile con la politica, dato che molti editori del tempo occupavano gli scranni del Comune di Catania e di Montecitorio) a presentare le caratteristiche dell’insabbiamento di Stato.

Esagerato?

Nessuno ha mai spiegato perché, per molte ore, l’identità del cadavere di Martoglio fu scambiata per quella dell’ex cocchiere Caminiti, ricoverato al Vittorio Emanuele perché affetto da grave sifilide. Un altro aspetto surreale di questa vicenda. La mattina del 16 settembre (mentre tutti sono preoccupati per la sparizione di Martoglio risalente alla sera precedente) viene ritrovato il corpo senza vita del commediografo, e il direttore sanitario dell’ospedale, amico di Nino e perfettamente consapevole di come è vestito (era stato con lui per tutta la giornata del 15), lo scambia per un tizio del sottoproletariato catanese che in ospedale indossa il pigiama e che – per le gravi condizioni di salute che lo affliggono – non si muove mai dal suo reparto.

Nessuno ha mai spiegato perché nelle stesse ore in cui viene ritrovato il corpo senza vita di Martoglio, la moglie del commediografo – che si trova a un passo da quel pozzo luce – non viene informata del decesso del marito, anzi, per rassicurarla, le viene detto: “Nino ha la febbre alta ed è rimasto a Giardini”.

Nessuno ha mai spiegato perché Ferdinando Martoglio, fratello dell’artista e ufficiale medico del Regio esercito a Roma, esclude categoricamente l’omicidio in quanto a Catania Nino “era benvoluto”. Molto interessante la testimonianza di Ferdinando, che in quella paginetta di verbale, contraddice il congiunto che – per l’odio subito – non vuole tornare nella sua città neanche per essere seppellito; stringe il cerchio dell’azione investigativa al solo capoluogo etneo (Nino vive a Roma da diciassette anni, e, come scrive il più autorevole critico teatrale del tempo, Lucio D’Ambra, “egli ha nemici palesi e occulti” sia nella Capitale che  altrove, in primis a Catania); fornisce ai magistrati la “deposizione chiave” per chiudere l’inchiesta per morte accidentale. Strano che non sia stato ascoltato Giovanni Martoglio, l’altro fratello di Nino, che dei veleni catanesi doveva sapere molto, essendo stato il formidabile illustratore del famoso giornale  catanese D’Artagnan (ne parliamo nelle righe successive).   

La verità è questa? Il sottoscritto cercherà di rivelarla per intero – e di rivelare i personaggi che stanno alla piramide di questo insabbiamento di Stato – in alcune opere di prossima edizione.

Nino Martoglio era famosissimo in Italia e all’estero. In Italia per le oltre trenta commedie di successo rappresentate da un mattatore della scena come Angelo Musco, e per la poesia dialettale che lo aveva elevato al livello di Trilussa, di Di Giacomo, di Meli e dei più grandi artisti dell’epoca.

All’estero per il cinema muto di cui era stato grande precursore attraverso soprattutto “Sperduti nel buio” (interpretato dal “più grande attore tragico del mondo”, Giovanni Grasso), un film al quale più tardi si sarebbero ispirati i grandi registi del neorealismo italiano come Visconti, De Sica, Rossellini e Blasetti, i quali, a loro volta, avrebbero iniettato linfa artistica perfino oltreoceano a un certo Martin Scorsese che negli anni Settanta del Novecento avrebbe realizzato capolavori come Taxi driver e Mean Streets.

A soli cinquantun anni (lui era nato a Belpasso, in provincia di Catania, il 3 dicembre 1870), Nino era un artista straordinario e acclamato da tantissima gente, ma anche odiato, sia per l’invidia che il successo inevitabilmente attira, sia per quelle idee socialiste, che alla vigilia di un regime violento come il fascismo erano viste con intolleranza dai protagonisti di quel ventennio, Mussolini in primis.

A Catania, la città in cui – dopo il trasferimento da Belpasso, avvenuto durante l’infanzia – Martoglio visse stabilmente fino all’età di trentaquattro anni (1904), l’odio era palpabile. A scatenarlo il suo giornale, il D’Artagnan, con il quale “il belpassese” lanciava le sue invettive contro quegli “affamatori del popolo” dei conservatori che in municipio si contrapponevano ai socialisti del sindaco Giuseppe De Felice, di cui Martoglio era seguace, tanto da essere consigliere comunale dal 1902 al 1904. A maggior ragione se si pensa che il D’Artagnan era considerato “funzionale” al “defelicianesimo”, che nel capoluogo etneo per un ventennio riuscì a mettere all’angolo i moderati.

Sbaglia chi pensa che i veleni politici contro Nino cessarono nel momento in cui egli lasciò Catania. Continuarono anche e soprattutto dopo. E si alimentarono. Non ci sono tracce di una sua partecipazione politica negli anni in cui risiedette nella Capitale, ma è nelle pieghe del suo impegno nel teatro, nel cinema e soprattutto nei progetti futuri (che non riguardano solo questi campi) che gli inquirenti non vollero vedere chiaro, specie, ripetiamo, alla vigilia di un regime al quale un uomo di successo come lui avrebbe dato molto, molto fastidio.

Luciano Mirone