Da un trentennio è un caso nazionale. A 78 anni Nino Di Guardo, ex Pci oggi Pd, si candida per l’ennesima volta (abbiamo perso il conto) a sindaco di Misterbianco, 50mila abitanti in provincia di Catania, dove il prossimo 24 ottobre si voterà.

“Un caso”, un personaggio, a prescindere dalla stima o dalla disistima che si possono nutrire nei suoi confronti. Intanto l’età. E l’energia con la quale questo tribuno di casa nostra affronta l’ennesima campagna elettorale: fa battaglie, organizza comizi, parla, si infervora, gesticola, si incazza, non dorme, si entusiasma, scrive sui Social come se ne avesse venti.

Dopo lo scioglimento del suo Comune per infiltrazioni mafiose deciso due anni fa dal Consiglio dei ministri, si considera “vittima di un crimine di Stato” e controbatte in modo durissimo alle accuse che gli sono state mosse, usando parole molto pesanti contro la persona che ha stilato la relazione trasmessa a Roma: l’ex prefetto di Catania, Claudio Sammmartino.

Forse è per questa esuberanza che a Misterbianco, sia a sinistra che a destra, è molto amato, ma anche molto detestato. Cinque sindacature e uno scranno, diversi anni fa, al Parlamento siciliano. Poi tornò al vero  amore della sua vita: fare, anzi rifare, il sindaco della sua città.

E quando nel 2019 il Consiglio dei ministri lo ha mandato a casa assieme alla sua giunta e al consiglio comunale con il timbro infamante di aver favorito la mafia, Di Guardo ha protestato con uno sciopero della fame, accusando tutti, da Salvini (che ha disposto lo scioglimento) al suo partito (che lo ha ratificato), fino al sindaco limitrofo di Motta Sant’Anastasia, Anastasio Carrà (referente di Salvini in Sicilia), che, secondo lui, sarebbe stato l’ispiratore del complotto leghista. Una protesta arrivata perfino sul tavolo del presidente della Repubblica Sergio Mattarella sotto forma di lettera. Scritta,ovviamente, dall’ex sindaco, ma rimasta sul tavolo. 

Nino Di Guardo durante lo sciopero della fame. Sopra: l’ex sindaco di Misterbianco (Catania)

Poi ha scritto un libro esplosivo, Crimine di Stato, in cui, assistito dal suo legale Carmelo D’Urso, non solo contesta pezzo per pezzo il provvedimento disposto dal leader della Lega (allora ministro dell’Interno), ma in diversi passaggi prende pure in giro l’ex prefetto, ritenuto “incompatibile” con la carica che questi ha ricoperto negli anni scorsi a Catania, in quanto zio del deputato catanese Luca Sammartino, “Mister 32mila preferenze”, rinviato a giudizio per ben due volte per corruzione elettorale (con accuse molto pesanti che vanno oltre la corruzione elettorale), transitato nel giro di pochi anni dal Pd a Italia viva, fino ad approdare alla stessa Lega di Salvini. Nessuna querela, nessuna smentita, nessuna puntualizzazione contro il volume.

La copertina del volume di Nino Di Guardo, Crimine di Stato. Sopra: l’ex sindaco di Misterbianco (Catania)

Contro gli organi prefettizi, Di Guardo esibisce delibere, cita leggi, rilascia interviste, indice comizi e ripete come un mantra: “Sì, a Misterbianco è stato commesso un crimine di Stato”.

Al centro di tutto, secondo lui, c’è la più grossa discarica di rifiuti della Sicilia, ubicata in territorio di Motta Sant’Anastasia, ma a poche centinaia di metri dal centro abitato di Misterbianco, un immenso deposito di spazzatura con miasmi, esalazioni e pericoli da far paura agli abitanti di entrambi i comuni che tante volte sono scesi in piazza per farla chiudere. “In questa discarica diversi politici hanno interessi – ha sempre detto –. E siccome mi sono sempre battuto per la sua chiusura devono togliermi di mezzo”.  

Una teoria che cozza clamorosamente con quanto scrive l’ex prefetto di Catania, che parla anche dell’ex vice sindaco di Di Guardo, Carmelo Santapaola – nessuna parentela né amicizia col boss catanese, solo un’omonimia – e di certe presunte vicinanze di quest’ultimo coi clan. E però l’arresto di due anni fa dello stesso vice sindaco è stato causato da un’accusa di “intestazione fittizia di beni”, nell’ambito di un’operazione per gioco d’azzardo che ha portato a 21 arresti di personaggi vicini a determinati ambienti.

In quei giorni Mario Barresi scrive su La Sicilia: “Le verità nascoste”, a volte possono essere “talmente invisibili da sfuggire anche al controllo di chi doveva controllare e che adesso, alzando i toni e la posta, rischia di apparire difensore dell’indifendibile”.

Di Guardo ha sempre liquidato la questione dicendo che quella del suo ex vice sindaco è “una vicenda che riguarda una intestazione fittizia di beni che nulla ha a che fare con la mafia”. E poi, dice, si tratta di “un fatto di natura privata che nulla a che fare con l’attività della sua Giunta. L’ex vice sindaco si è dimesso seduta stante”. E sfida i suoi accusatori a dimostrare che negli anni della sua sindacatura, Cosa nostra sia mai entrata in municipio. Poi alza il tiro parlando dei successi conseguiti dalla sua Amministrazione.

Di Guardo in questa elezione è sostenuto dal Pd – specie dal suo segretario regionale Anthony Barbagallo – e da quattro liste civiche.

I suoi avversari sono Marco Corsaro (suo ex vice sindaco, sostenuto da Fratelli d’Italia, Forza Italia e Diventerà Bellissima), Ernesto Calogero appoggiato da diverse liste civiche e dallo stesso deputato leghista Luca Sammartino, e Massimo La Piana, supportato dal Movimento 5 Stelle e dal gruppo Attiva Misterbianco, che hanno preso le distanze da Di Guardo, almeno al primo turno. La sinistra radicale, che spesso lo contesta, non ha presentato candidature alternative, ma buona parte di essa sembra orientata per La Piana.     

Mai la città si era divisa in questo modo fra chi parla di “scioglimento giusto” e chi, al contrario, lo considera “un’umiliazione per una città che non si lascia sottomettere”.

Una divisione che non si registrò neanche trent’anni fa, quando il “caso Di Guardo” ebbe inizio. Fu nel lontano 1992 che questo personaggio incredibile, allora consigliere comunale del Pci, divenne famoso in tutta Italia. La mafia era ormai al culmine della sua inaudita ferocia: aveva arso vivo Giuseppe Torre e alzato il tiro sulla politica, assassinando Paolo Arena, segretario e leader democristiano di Misterbianco.

Il giornalista Giorgio Bocca

Di Guardo prese l’aereo e si recò a Milano, nientemeno che da Giorgio Bocca, uno dei giornalisti più famosi d’Italia, per raccontare fatti e misfatti della sua città, gli omicidi, gli attentati e le minacce. E soprattutto per dire delle cose che allora non si potevano neanche bisbigliare: che all’interno del suo comune spadroneggiavano i boss.

Il giorno dopo Bocca fece un paginone su Repubblica, citando i protagonisti delle imposture consumate all’ombra del vulcano più alto d’Europa. Misterbianco diventò caso nazionale. E di conseguenza Di Guardo, che lo aveva fatto scoppiare.

In consiglio comunale successe il finimondo: la maggioranza non mise sotto accusa i politici collusi, ma colui che li accusava, Nino Di Guardo, che per un periodo fu costretto a viaggiare sotto scorta. A Misterbianco arrivarono i giornali nazionali, la Rai –soprattutto Samarcanda di Michele Santoro, con il mitico reportage di Maria Grazia Mazzola – e Mediaset per raccontare la storia di questo paesone con la zona commerciale più grande della Sicilia, un abusivismo edilizio da fare accapponare la pelle e una mafia sanguinaria che faceva morti a grappoli e contemporaneamente poteva permettersi di entrare nelle stanze del potere con un calcio alla porta.  

Alcuni mesi dopo arrivò lo scioglimento e nel ’93 Di Guardo diventò il primo sindaco della città eletto direttamente dal popolo. Alla fine di quell’anno, in un articolo di auguri, Bocca auspicando lunga vita ai personaggi mondiali che negli ultimi trecentosessantacinque giorni si erano messi in evidenza, parlò ancora una volta del “sindaco coraggioso di Misterbianco”.    

Oggi la storia si capovolge. Oggi è lui ad essere additato. Corsi e ricorsi storici. In paese si dice che mai come questa volta le elezioni hanno un esito incerto. Ma a prescindere da come la si pensa, Di Guardo continua ad essere un caso.

Luciano Mirone