Il giorno del vaccino è arrivato. Catania, ore undici e trenta del mattino, via Forcile, hub dell’ex Mercato ortofrutticolo. Non è facile arrivare. Mica perché è contorta la strada, semplicemente perché non esiste una segnaletica adeguata, ma in Sicilia è la regola: basta abbassare il finestrino, informarsi e si arriva.

Le macchine posteggiate sono tante, sembra di essere allo stadio, c’è pure l’immancabile posteggiatore, ha le mani infilate nella tasche, rimescola gli spicci per farne sentire il tintinnio, si avvicina: “’U posteggiu, ‘u posteggiu”. Ha circa quarant’anni, il volto rubicondo e l’aria mite. Butta lì una frase ripetuta chissà quante volte: “Haiu ‘na mugghieri e tri figghi a casa”, ho una moglie e tre figli a casa. Per farti percepire il messaggio, rimette le mani in tasca, un altro trillo di monete e il resto viene da sé. Non è una estorsione,  come viene detto spesso a proposito dei posteggiatori: è un romantico artista di mezza età che per campare la famiglia si è inventato un piccolo ammortizzatore sociale. E gli artisti vanno retribuiti.

La fila è interminabile. C’è da capirlo. È la più imponente vaccinazione di massa della storia. Ce ne ricorderemo, come ricorderemo il primo giorno di scuola, il servizio militare e il matrimonio, come ricorderemo questa pandemia da Covid che ha mietuto troppe vittime e ci ha tenuti prigionieri per un anno e mezzo con mille paure e incertezze.

Davanti ai cancelli, le guardie giurate ti consegnano il talloncino col numero prestampato, E88, che devi conservare se non vuoi disperderti nella folla e non perdere la priorità acquisita.  L’organizzazione non ha la precisione di un orologio svizzero, ma neanche la sgangheratezza del servizio d’ordine di una sagra paesana.

Veniamo suddivisi in tre tronconi, in base all’ordine di arrivo, tutti sotto ai grandi gazebo della Protezione civile per evitare il sole cocente di inizio estate. C’è chi si siede (ci sono anche le sedie) e chi preferisce restare in piedi.

I ragazzi del personale sono gentili, hanno accenti disparati: Catania, ma anche Enna, Caltanissetta e Siracusa. Ci fanno riempire il modulo delle eventuali patologie pregresse, e si accorgono che sono spariti quelli della privacy, in pochi minuti li procurano e li portano sui tavoli. Non mancano neanche le biro. C’è anche il gazebo di Legambiente.

Qualcuno chiacchiera. E però non sono le file di una volta, quando tutti partecipavano al rito inevitabile della discussione “del più e del meno”, mentre si era in attesa della visita del medico o della consegna della raccomandata all’ufficio postale e ci si incazzava quando si cominciava a parlare della politica “ca si mangiau i soddi”. Adesso i telefonini hanno azzerato le indignazioni, i pettegolezzi, perfino certi sguardi magnetici al cospetto di un paio di jeans attillati che ti sfilano davanti. Gli occhi stanno abbassati, non si dialoga più con la bocca, ma con le dita.

La signora protesta perché quello col numerino successivo ha saltato la fila, mentre un tizio con le stampelle ma dall’incedere sicuro guadagna posizioni e, dalle ultime posizioni, si piazza ai primi posti dell’hub.

Frattanto la fila – seppure lentamente – procede. Ci si avvia al gazebo numero due. Siamo arrivati alla fila che va dai numeri sessanta e settanta. Coraggio… altri diciotto. Non è poi così disastroso come qualcuno l’aveva descritto, parlando addirittura di sei o sette ore di attesa.

Alla fine il terzo gazebo – quello finale, da cui ci si immette nella struttura coperta dell’ex Ortofrutticolo, dove si fanno i vaccini – c’è il “vigilantes” che ha il compito di tenere disciplinata la fila. È un tipo semplice e mingherlino, ha una maglietta azzurra e un berretto nero con visiera, lui dice di essere stato incaricato dalla Protezione civile di tenere l’ordine.

A un certo punto tira fuori l’altoparlante per dare le istruzioni alla folla, pigia il tasto dell’amplificazione, ma non funziona. Pigia l’altro, e dall’apparecchio fuoriesce il suono della tromba che si sente in curva sud: “E ‘cchi mungì?”, dice lui esterrefatto,cosa ho premuto?

Spiega di essere in quel posto in sostituzione del vigilantes titolare, assente dal posto di lavoro, a suo dire, da un’ora: “N’ura ‘o bagnu?”, un’ora al bagno? E giù una lunga dissertazione sugli orari migliori per andare in bagno nel corso della giornata. Molti mandano al diavolo il cellulare per ascoltare l’esposizione del vigilantes numero due: “Iù ‘e cincu di matina ci vaiu”, io vado alle cinque di mattina.  “Tutta nauttra cosa”.

Nel frattempo arriva il vigilantes numero uno, in divisa. Un tipo tracagnotto. Anche lui tira fuori l’altoparlante ma invano: nell’aria si sente un altro suono da stadio. I numeri vengono chiamati lo stesso ma senza amplificazione.

Finalmente arriva il mio turno. Entro nella grande struttura, mi presento all’ingresso, riempio un altro modulo e vengo smistato alla dottoressa che mi chiede di quali eventuali patologie soffro. È gentile.

Un’altra attesa di mezz’ora, nel frattempo gli infermieri prendono i vaccini occorrenti dal deposito, dopodiché il momento fatidico. Alzo la manica, “in quale braccio preferisce?”, giro la faccia, non voglio vedere l’ago che si infila, sento la morbidezza del cotone idrofilo, l’odore del disinfettante e un piccolo pizzicotto sulla pelle e nella carne.  

Esco dalla stanzetta, sento che il dolore aumenta, chiedo alla persona che mi ha preceduto se prova le stesse sensazioni: “Nessun problema”. A me il dolore aumenta. Qualche ora dopo avverto pure i sintomi della febbre. Il giorno dopo tutto è passato. Ma di tutto questo me ne ricorderò finché campo.

Luciano Mirone