Palermo è stare ai piedi, letteralmente e in ogni altro senso, ai piedi, del Palazzo di Giustizia. Stare ore a guardare e ad ascoltare una madre e un padre urlare col collo che scoppia e gli occhi disperati, chiedendo notizie certe sul killer che ha ucciso il loro bambino di undici anni, Claudio Domino, a trentaquattro anni dalla sua morte.

Ritratto del piccolo Claudio Domino, ucciso da un killer di Cosa nostra. Dopo 34 anni i suoi genitori aspettano giustizia. Sopra: “il profumo della liberta”. Entrambe le opere sono dell’artista Gaetano Porcasi

Palermo è guardarsi intorno, sovrastati da quegli enormi e lontani pilastri di marmo, e vedere donne e uomini che si fanno coraggio a vicenda, accomunati da strazianti cicatrici rattoppate malamente e da un infinito, incolmabile, credito che vantano dallo Stato, eppure mendicano ai piedi di quel Palazzo…

Palermo è abbracciare Antonio Vullo, Antonio dagli occhi sempre velati, Antonio che è rimasto vivo sì, ma non del tutto. Palermo è Antonio che mi racconta del suo amico e collega Claudio, delle loro famiglie, dei loro bambini, del mobile uguale da acquistare. Antonio rimasto vivo sì, ma non del tutto, che esce dall’auto blindata e mette un piede sulla gamba, solo quella, del suo amico Claudio. Antonio rimasto vivo sì, ma non del tutto, che deve sopportare, ancora una volta, l’ennesima offesa.

Palermo è il mio amico Luciano Traina, uno che in Via D’Amelio ha riconosciuto un pezzo di suo fratello Claudio dalla scarpa. Luciano è quello che sa bene che le tombe di Paolo, Claudio, Agostino, Emanuela, Vincenzo e Walter Eddie sono sei sì, ma che tutti condividono quelle degli altri fratelli e della sorella. Il suo Claudio è con gli altri e gli altri con il suo Claudio, nella tomba di famiglia.

Palermo è trovare il coraggio, perché coraggio ce ne vuole, per andare a salutare Vincenzo Agostino. Trema il cuore a guardarlo, la vista per un attimo si offusca.

“Non devo piangere non devo piangere non devo piangere” mi ripeto. Coraggio, vado a salutarlo. Quei laghi azzurri, seminascosti da cespugli bianchi, mi accolgono sorridendo da un abisso di dolore. Vorrei caricarmelo sulle spalle, come Enea fece con Anchise, e portarlo via in salvo.

E invece sta lì, la mano grande e buona da contadino stretta al suo bastone, sulle gambe malferme appoggiato al muro. Sta lì a parlarmi e a raccontare pezzi di vita, e a commuoversi sentendo come mi chiamo. Sta lì, anche Lui supplice ai piedi di quel palazzo che ci sovrasta tutti, e con amore mi mostra la foto del suo matrimonio che ha sul telefonino. Bellissimi e giovani, Lui e Augusta, felici e ignari delle ferite che la vita avrebbe loro riservato. O forse dovremmo dire, che lo Stato avrebbe loro riservato.

Palermo è “fare la scorta”, una scorta d’amore, all’Albero della Pace di Via D’Amelio. Quando si arriva un tuffo al cuore è inevitabile. Mentalmente si recita una preghiera e si ripensa a tutto quello che è stato.

Ma oggi c’è il sole, i palazzi sono integri, la strada pulita, il cielo azzurro, l’Albero d’ulivo è rigoglioso e fiorito. Il vento muove i suoi rami e lui sembra salutarci.

Devo ripetere il mantra “non piangere…”

Coi miei compagni Luana, Ornella e Mario ci guardiamo intorno, e proprio Mario, accorso come poliziotto all’indomani della strage, ci racconta come in trance lo sfacelo di quel luogo, ora inondato di sole e di pace.

Palermo è che mentre ti stai disperando in Via D’Amelio, arrivano Luciano Traina e Antonio Vullo. Arrivano sorridenti e portano dolci e ti offrono il caffè, e pensi che sei quasi inutile, perché quei due, anime acciaccate con gli occhi per sempre velati, sono lì e ti portano speranza e affetto, quando invece dovresti essere tu a portarli a loro. E ti ritrovi a sorridere, ad abbracciarli, a farti le foto perché non vuoi scordare per nulla al mondo quel giorno. E in tutto questo, Salvatore Borsellino ci osserva dalla web-cam, ci parla e ci sorride da lontano ma vicinissimo e presente.

Palermo è l’orrido cratere, disumana cicatrice nell’asfalto e nelle carni della nostra disgraziata terra, curato e medicato da una madre e una sorella che lì, su quel dolore, vollero piantare la speranza e la Pace.

Quell’albero non invita a dimenticare i Martiri lì caduti, non vuol dirti di scordare le carni profanate e disperse per centinaia di metri in tutte le direzioni. Non vuol farti dimenticare i palazzi sventrati e il fumo nero e acre, tantomeno le luride menzogne ed i raggiri né il “furto dei furti”.

Ma ti parla con le parole che userebbe una madre attenta e che ti ricorda ogni cosa, con pazienza meticolosa a voce bassa ti elenca tutto, tutto quello che devi ricordare e tramandare, e lei, l’Agenda Rossa. E come il discorso serio e pacato di ogni madre ti porge gli strumenti per pensare, per lottare, per incazzarti e urlare, per esigere, per non lasciare nessuno da solo, chiunque tu sia e qualunque sia. Ti dà la forza di parlare di quello che è accaduto e che continua ad accadere sulle nostre teste.

E le lacrime che per qualche secondo offuscano la vista e bagnano gli occhiali non sono semplice dolore, ma servono a pulirti gli occhi per poter vedere meglio. La gola stretta servirà a farti parlare meglio domani. Il mantra non serve.

Palermo è il sangue nelle strade che non potrà mai davvero esser lavato via. Palermo è una Via Crucis a forma di città ed ogni stazione è una icona del fallimento del nostro Paese, dell’abbandono, della menzogna assurta a modello di vita, della nostra debolezza, delle nostre viltà.

Palermo è l’enorme Palazzo davanti a cui appariamo minuscoli e a cui chiediamo giustizia e verità. Giustizia e Verità, due parole abusate in ogni senso possibile, eppure ragione di vita per molti, la maggior parte dei quali invisibili.

Palermo bellissima e addolorata, nobildonna trascurata, fremente di vita, rassegnata e infuriata insieme…

Tutta ricamata con esili fili luminosi di speranza che spiccano, lucenti e fragili, su uno sfondo rosso di sangue mai rappreso né mai lavato via e che profuma. Profuma di rose e pomelie, come quello dei Santi.

Ida Bonfiglio