Devono spiegarlo gli investigatori se sul rapimento della piccola Denise Pipitone c’è l’ombra del boss Matteo Messina Denaro oppure se si tratta di un sequestro circoscritto alle sole persone della famiglia. Devono spiegarlo se è vero ciò che mercoledì sera ha dichiarato a Chi l’ha visto? una persona a volto coperto, secondo cui un uomo appartenente alla “famiglia allargata” di Piera Maggio (madre di Denise), di Piero Pulizzi (padre biologico della piccola), di Anna Corona (ex moglie di Pulizzi) e di Jessica Pulizzi (figlia di Piero e di Anna) non solo è coinvolto nel rapimento e sarebbe vicino all’imprendibile capomafia di Castelvetrano, ma potrebbe essere stato protetto per molto tempo da chi ha fatto le indagini.

Devono spiegarlo, perché è da diciassette anni – da quando, l’1 settembre 2004, la bambina è scomparsa mentre giocava davanti alla sua casa di Mazara del Vallo – che sentiamo la solita tiritera: “Chi ha visto parli”. Sì, certo, “chi ha visto parli”. Dirlo da uno studio televisivo da Roma o da Milano è un conto. Attuarlo in Sicilia – dove lo Stato, invece di proteggere i testimoni, pare che abbia protetto i sospettati – è un altro.

Perché una cosa deve essere chiara: l’omertà non è una sindrome insita nei siciliani per questioni genetiche. È figlia della paura. Che è un sentimento umano: esiste in Sicilia come in Svezia, negli Stati Uniti come in ogni angolo sperduto del mondo. Solo che in Sicilia, da secoli, esiste un fenomeno che si chiama mafia, e quindi la paura, oltre ad essere un fatto immanente, è uno stato d’animo ancestrale che si trasmette di generazione in generazione. Non è facile spiegare: avete presenti gli uccelli che scappano al cospetto dell’essere umano che li vuole catturare? Più o meno è questo.   

Chi pronuncia la fatidica frase “Chi sa parli”, dovrebbe prima rispondere a una semplice domanda: egregio/a signore/a, se lei assiste a un omicidio, a un sequestro di persona o a una richiesta di “pizzo” di cui la matrice (o magari la cointeressenza, o al limite la complicità) è mafiosa, che fa? Probabilmente lei risponderà senza esitazione: “Io parlo”. Certo.

Ma se l’assassino, il sequestratore o l’estortore minacciano di uccidere suo figlio (gesto al quale in Sicilia, specie in certe realtà ovattate come Mazara del Vallo, neanche c’è bisogno di ricorrere, dato che la minaccia è talmente implicita che basta il silenzio), che fa? E se le istituzioni che hanno il compito di proteggere la sua incolumità e quella della sua famiglia si girano dall’altro lato, lei è ancora dell’idea che bisogna parlare “senza se e senza ma”?

La Sicilia ha pagato un tributo di sangue troppo alto. Troppi innocenti sono morti perché ritenuti “colpevoli” di aver visto qualcosa, di aver partecipato a qualcosa, di essere stati presenti casualmente a qualcosa, o di non aver pagato qualcosa a qualcuno.

Una storia che forse non tutti conoscono può chiarire il concetto. Giuseppe Letizia era un pastorello di otto anni che nella Corleone truce e violenta degli anni Cinquanta fu testimone del delitto del sindacalista Placido Rizzotto, che dopo essere stato ucciso, fu scaraventato dal costone roccioso di Rocca Busambra da Luciano Liggio, Totò Riina e Bernardo Provenzano. Giuseppe che assistette alla scena, fu preso, portato all’ospedale di Corleone, dove era medico Michele Navarra, sindaco e boss del paese, il quale gli praticò una iniezione di veleno per cancellarlo dalla faccia della terra, in modo da eliminare una testimonianza fondamentale come quella del piccolo pastore. L’allora capitano dei Carabinieri Carlo Alberto Dalla Chiesa fece un rapporto in cui ricostruì in modo dettagliato tutta la vicenda, ma al processo gli assassini di Placido Rizzotto e di Giuseppe Letizia se la cavarono con un’insufficienza di prove.    

Di storie come queste, in Sicilia, se ne contano tante. Per non parlare delle industrie saltate in aria, incendiate, distrutte, solo perché il titolare non si piegava alla logica del “pizzo”. Addirittura un imprenditore come Libero Grassi, negli anni Novanta del secolo scorso, fu ucciso per questo. 

Ci sono volute le stragi di Capaci e di via D’Amelio per indurre lo Stato a proteggere in modo più efficace rispetto al passato le vittime delle estorsioni. E si vede, se consideriamo che da qualche anno le denunce contro il racket sono aumentate. Basta vedere, nelle scorse settimane, l’esemplare denuncia fatta dall’imprenditore di Belpasso, Giuseppe Condorelli, titolare dell’omonima azienda dolciaria, che ha contribuito all’arresto di 40 affiliati al clan Santapaola-Ercolano, per comprendere che se lo Stato fa pienamente il suo dovere, il cittadino si comporta di conseguenza.

Nel caso della piccola Denise, lo Stato come si è comportato? 

Un conto è gridare allo scandalo di fronte a una città che assiste passivamente al sequestro di una bambina prelevata da persone “comuni”, un altro è quando nella vicenda – secondo quanto è stato dichiarato a Chi l’ha visto? potrebbe esserci stata la partecipazione di qualche elemento vicino a Cosa nostra. Se è vero gli inquirenti hanno il dovere di spiegare. Se non è vero hanno il dovere di smentirlo.

Se si tratta di un rapimento originato soltanto da rancore è sacrosanto parlare di “omertà”, ma se il rancore è stato “contaminato” dalla presenza della mafia è sacrosanto giustificarla. In questa storia del rapimento di Denise, il “buco nero” non è il silenzio dei mazaresi, ma quello degli inquirenti.

E allora va ribaltato il ragionamento: lo Stato deve far sentire la sua presenza anche in questa propaggine dell’Italia del Sud, proteggendo i testimoni, facendo sentire la sua vicinanza all’intera città, trasmettendo il messaggio che a comandare non è Matteo Messina Denaro, ma le istituzioni democratiche. Solo così sarà possibile ricostruire pienamente la verità su Denise. 

Nella foto: Denise Pipitone da piccola

Luciano Mirone