A un certo punto a Belpasso fu inaugurato il primo girarrosto del paese. Era l’inizio degli anni Settanta, la cosa fece sgrusciu, rumore: in tutte le famiglie a quel tempo i “polli allo spiedo” erano “un lusso”, soprattutto in occasione del pranzo domenicale, quando la famiglia si riuniva coi nonni, gli zii e i cugini e si mangiava all’una, perché ancora c’era l’usanza all’antica. E poi – per i più giovani – alle due e mezza c’era la partita o in alternativa Tutto il calcio minuto per minuto. E allora il pollo allo spiedo preso da Trifoglio, in via Roma, era il modo migliore per coniugare la sbrigatività dell’acquisto con la prelibatezza del pranzo del di’ di festa.

Sì, perché il pollo, a quel tempo, era considerato un lusso: quando mia zia – quella volta all’anno in cui venivamo a Belpasso – ci invitava a pranzo diceva: “Oggi per l’avvenimento accattai i polli”.

Una volta il giornalista Gianni Brera, per dimostrare di aver trattato bene Gianni Rivera (bistrattato sempre nelle cronache calcistiche del lunedì, con la definizione di “abatino”), dichiarò in tivù: “Ho invitato il capitano del Milan a pranzo a casa mia. E sapete cosa abbiamo mangiato? Pollo allo spiedo”.

Ancor prima del girarrosto, il pollo (quello da cortile ‘cca cricchia longa, o in alternativa la gallina), si mangiava quasi sempre a brodo, qualche volta al forno con le patate, solo le cucine a gas più attrezzate disponevano dell’asta girevole che dava la possibilità di arrostire il gallo come desiderato. Ma la tradizione domenicale – a parte il pollo a brodo – imponeva solitamente carne a stufato con l’estratto di pomodoro (‘astrattu) o carne a brodo con il sedano (l’acciu) e la carota.

Quindi il pollo allo spiedo di Trifoglio fu una novità, che i belpassesi accolsero con entusiasmo: la domenica e nelle feste comandate bisognava recarsi presto al girarrosto, in caso contrario bisognava fare file lunghissime, con il rischio di tornare a casa con le pive nel sacco, nel senso che i polli erano finiti.

Il segreto di quella pietanza allo spiedo lo svelò una volta mio nonno: “U pollu è bbonu, ma i patati… aaahhh… sunu ancora ‘cchiù bboni”, il pollo è buono, ma le patate sono più buone.

Era vero. Quella miscela di sapori, amalgamato con le spezie e i profumi dell’arrosto combinato fra carne e patate, era una squisitezza che stimolava i palati più refrattari.

Ad apprendere i trucchi del mestiere c’era Gaetano, il figlio del titolare, un ragazzino buono e timido, che lavorava dalla mattina alla sera e che, in età adulta, prese le redini del negozio ripetendo gli ottimi risultati dei genitori, al punto da essere definito affettuosamente da tutti, Nucciu de’ polli, per quella dedizione al lavoro che lo contraddistingueva. Per tutti questi decenni, diverse generazioni di belpassesi lo hanno identificato con un pezzo della storia di questo paese.

Quando passavo da lì, nelle rarissime pause di lavoro che si prendeva, lo vedevo davanti al negozio, sul marciapiede, a riposarsi o a parlare con qualcuno. Il suo saluto era sempre dolce e rispettoso. Il suo sorriso come una bella giornata di sole. 

Ieri Gaetano se n’è andato all’età di 57 anni. Il virus lo ha portato via. La sua scomparsa ha commosso tutti. I Social sono stati inondati delle parole sincere di una città che, a causa della pandemia, perde un altro pezzo importante della “storia minima” della comunità, una storia che persone semplici come lui sono capaci di scrivere attraverso il lavoro, le idee e il sorriso.

Nella foto: Gaetano Trifoglio (immagine tratta dal profilo fb di Pasquale Campisi)

Luciano Mirone