Un libro avvincente. Duecentodiciotto pagine in cui l’autore Elio Gimbo, a cento anni dai fatti, mette in discussione la “morte accidentale” di Nino Martoglio, commediografo, poeta, giornalista, regista teatrale e cinematografico, avvenuta il 15 settembre 1921 all’ospedale Vittorio Emanuele di Catania in una tromba di ascensore ancora priva del progettato mezzo meccanico, dopo avere ricoverato il figlio di otto anni, Luigi Marco, affetto da paratifo. Titolo del volume: “Le tre porte”. Sottotitolo: “La misteriosa morte di Nino Martoglio”. Editore: Villaggio Maori. Prezzo: 15 Euro.

La copertina del libro di Elio Gimbo, “Le tre porte” (Villaggio Maori editore) sulla misteriosa morte di Nino Martoglio. Sopra: un ritratto del commediografo

Col piglio del giornalista e dello scrittore consumato, il regista catanese esplora questa storia “dal di dentro” attraverso le carte dell’indagine che – assieme all’avvocato Gianni Nicotra – è riuscito a riesumare dopo un secolo di polvere e di sabbia, dando anche a questo giornale la possibilità di ricavarne ben dieci puntate.

Un’impresa affascinante che mai a nessuno, prima di loro, era riuscita: mettere la mani sugli atti dell’inchiesta penale, archiviata nel giro di qualche giorno dai magistrati catanesi come “una tragica fatalità”; e studiarle, e confrontarle coi giornali catanesi del tempo (del tutto omologati alla tesi ufficiale), e inserirle nel contesto storico di quello scorcio di Novecento in cui – alla vigilia della presa del potere di Mussolini (1922) – si ammazza con le bombe, con gli assalti alle Camere del lavoro e con i manganelli: per un’idea diversa, per un dissenso, per una bandiera rossa. A pagare il prezzo con la vita sono politici, sindacalisti e intellettuali.

Attraverso queste pagine, Gimbo racconta gli anni che precedono questa scoperta, quelli in cui, mentre frequenta la scuola d’arte drammatica Umberto Spadaro del Teatro Stabile di Catania, pone sempre la stessa domanda: “Secondo te come e perché è morto Martoglio?”. Risposta sempre uguale: morte accidentale, o, più sicilianamente, cascàu, è caduto.

Poche e svogliate parole che evidenziano lo stato d’animo di una città vivacissima sul piano teatrale, ma accidiosa e indolente su quello intellettuale: basti ricordare le tesi bizzarre sostenute dagli intellettuali catanesi 37 anni fa (1984) dopo il delitto di un grande giornalista come Giuseppe Fava, “colpevole” di avere squarciato il velo sugli orrori di una città nella quale la mafia era al centro di un sistema, del quale politica, imprenditoria corrotta, magistratura e stampa facevano parte mediante un rapporto perverso di affari e di connivenze.  

Nella Catania di Martoglio, la mafia non è quella di Santapaola (anzi, secondo il pentito Giuseppe Calderone, neanche c’è, o comunque è a un livello da “scassapagghiari” rispetto ai decenni successivi, dato che lo stesso collaboratore di giustizia ne fa risalire la nascita nel 1927), ma le altre entità – alle quali va aggiunto uno squadrismo collaudato e agguerrito – appaiono collegate da un invisibile filo nero (anzi nerissimo) in cui la politica domina su tutto e – benché presente attraverso alcuni autorevoli rappresentanti – viene tenuta accuratamente fuori dall’inchiesta sulla morte del commediografo.

Con un sistema di tal fatta – che nega perfino l’evidenza, fa a pezzi il Codice penale, racconta all’opinione pubblica (presente e perfino futura: ecco il capolavoro!) la storiella della “tragica fatalità che ha colpito l’insigne poeta”, con un sistema che si erge a modello 63 anni dopo, quando viene assassinato Fava, ammazzato “per una questione di corna” o perché “ricattava i Cavalieri del lavoro” – volete che perfino il Dna di una città non ne venga condizionato? Solo una variabile, nel 1984, fa saltare gli equilibri consolidati del “sistema”, evitando a Fava la denigrazione e l’oblio, come era successo a Martoglio: i “carusi” de I Siciliani, i giornalisti di quella testata alternativa, che con grande caparbietà raccontano cosa si nasconde sotto le acque limacciose della palude catanese. Pensiamo quale sarebbe stata la sorte di Fava senza l’impegno postumo de I Siciliani.  

Il regista catanese Elio Gimbo

Elio Gimbo fa un semplice ragionamento: uno come Martoglio, considerato ancor oggi “il commediografo più amato dal popolo siciliano” (più di Pirandello), ricco di successi grazie al teatro, alla poesia, al giornalismo e al cinema (Nino è un pioniere del “muto”, il vero ispiratore del movimento neorealista di Visconti, De Sica e Rossellini), non può morire così: troppo banale la tesi degli inquirenti dell’epoca per spiegare una morte – che a Elio, a primo acchito, senza aver letto le carte – appare molto più complessa da come la si vuol fare apparire.

E così dapprima mette in scena un lavoro teatrale, “Sperduto nel buio”, scritto da Nino Bellia e prodotto dal gruppo Fabbricateatro (di cui Elio è regista e direttore artistico), nel quale mutuando il titolo del celeberrimo film di Martoglio, “Sperduti nel buio” (trafugato dall’esercito nazista durante l’occupazione di Roma, e considerato un capolavoro dai critici e dagli storici del cinema), viene fatto un parallelismo fra la Catania di Martoglio e la Catania di Fava, fra le due morti, fra i “minimizzatori” di ieri e di oggi, e alla fine emerge “l’intuizione intellettuale” su una morte diversa da come le fonti ufficiali hanno sempre teorizzato.

Ma quella è, appunto, solo una “intuizione intellettuale”. Per capire se il ragionamento è giusto, bisogna trovare una “chiave”. E per trovare la “chiave” bisogna fare una ricerca. E così Elio gira biblioteche (si sofferma alla Ursino Recupero, dove trova la direttrice Rita Carbonaro che lo indirizza adeguatamente), consulta documenti, libri, riviste e quotidiani del tempo, approda infine all’Archivio di Stato di Catania (anche lì un’altra direttrice, Nunzia Villarosa, prende a cuore la storia), trova gli atti del processo civile innescato dalla famiglia Martoglio per ottenere il risarcimento del danno dall’ospedale Vittorio Emanuele.

Ma sono carte insufficienti, dalle quali si comprende poco su quanto potrebbe essere successo prima e dopo quel fatidico 15 settembre 1921. E tuttavia sono carte preziose, poiché da esse emerge un’indicazione: a un certo punto si legge. “Come stabilito dalle indagini penali avviate subito dopo il decesso”. Quindi – pensa Elio – un’inchiesta ci fu, archiviata sì, ma preziosa per fare emergere fatti, date, circostanze e persone.

Un’inchiesta che però all’Archivio di Stato non c’è. La direttrice gli consiglia di recarsi alla zona industriale, dove in un grosso capannone vengono smistati gli atti archiviati nei secoli passati. Stavolta Elio non è solo. Troppo complessa questa indagine, c’è bisogno di un bravo studioso del diritto, in grado di “leggere” bene le carte: chi meglio dell’amico avvocato Gianni Nicotra, componente del gruppo Fabbricateatro, può fare al caso suo?

Detto, fatto. I due vanno in questa immensa struttura di cemento e cercano l’ago nel pagliaio. Dopo settimane di ricerche infruttuose, di illusioni e di delusioni, è proprio Gianni a dire “Eureka”, parola di gioia che significa evviva, finalmente, nel momento in cui, in mezzo a una pila altissima di fascicoli, trova scritto “atti relativi alla morte di Martoglio Antonino”.

Il raccoglitore è legato da tre nastri bianchi sui quali il cancelliere del Tribunale di Catania fece tre nodi. Da cento anni quei nodi non sono mai stati sciolti. Questa è la prima volta. Elio e Gianni tirano quelle legature, dalle quali fuoriesce il pulviscolo accumulatosi in questo secolo. È un momento magico, emozionante, una data storica, che Elio appunta sul taccuino. Da lì inizia la fantastica avventura piena dei colpi di scena ottimamente raccontati in questo libro. Che bisogna leggere. Assolutamente.

Luciano Mirone