No, per favore, non parlateci di commemorazioni, perché non sono cosa per noi. Ecco perché nel giorno del ventottesimo anniversario della strage di Capaci abbiamo preferito il silenzio alle parole, alla retorica, all’ipocrisia, alle finte commozioni, pur rispettando quei pochi dibattiti seri organizzati in questa data.

Consentiteci almeno un giorno di riflessione in un’Italia che ha deciso di fare la “lotta alla mafia” solo il 23 maggio e il 19 luglio per lavarsi la coscienza dicendo sempre le stesse cose. Ormai queste date – per molti –  sono come è il 14 febbraio per le coppie scoppiate: qualche minuto di disgustose moine, il ristorante, il lume di candela e pure il regalino.

Non parlateci di commemorazioni, non diteci di mischiarci con i mercanti nel tempio o con chi si fa scappare la lacrimuccia se vede I cento passi e poi vota Berlusconi, o con i fascisti che il 1° Maggio, “per dovere istituzionale”, vanno a Portella della Ginestra, e si mettono pure in raccoglimento, dimenticando che fra quelli che spararono ai contadini (quattordici morti e decine di feriti), oltre ai mafiosi e ai banditi della banda Giuliano, c’erano pure gli uomini della Decima Mas. Non è una frase sentita al bar, ma quanto scrive uno dei massimi studiosi della prima strage di Stato, il professor Giuseppe Casarubbea.

E spieghiamolo – agli smemorati e a chi non lo sa – che la Decima Mas fu un’unità d’assalto istituita durante il fascismo, il cui nome è legato a Junio Valerio Borghese, presidente del Movimento sociale italiano dal 1951 al 1953, e autore del tentato golpe che il “principe nero” organizzò nel 1970 assieme a Cosa nostra e alle entità più eversive dell’Italia repubblicana. Per non parlare di tutte le altre stragi, da piazza Fontana alla stazione di Bologna, dove la destra eversiva è sempre coinvolta fino al collo.  

Non parlateci di commemorazioni se le commemorazioni sono il mezzo per ottenere l’agognata visibilità che certa sedicente “antimafia” cerca in modo spasmodico, sempre a favore di selfie organizzato o di telecamera, soprattutto in queste date.

Non diteci di partecipare a dibattiti, tavole rotonde, conferenze, convegni, cortei, passeggiate, sit-in, cene con chi – non solo sospettabile, ma soprattutto insospettabile – a parole dice di essere contro la mafia, ma nei fatti (nella migliore delle ipotesi) rema contro, e (nella peggiore) cerca di isolare la gente perbene e magari fa di tutto per occultare certe verità.

Non diteci di mischiarci con l’altra sedicente antimafia, quella che fa finta di combattere la mafia per fare soldi e carriera (senza per questo volere demonizzare chi ha fatto una onesta carriera facendo antimafia seriamente). Grazie, ma non ci interessa.

Non diteci di ripetete come un disco rotto frasi come la mafia fa schifo (lo slogan preferito dall’ex governatore della Sicilia Totò Cuffaro) o la mafia è una montagna di merda, se subito dopo ci cerchiamo la raccomandazione del politico per ottenere un privilegio.

Non diteci di fare tutte queste cose, perché non sono cose per noi. Quando tutti parlano nelle date “comandate”, noi preferiamo star zitti; quando tutti stanno zitti (nei restanti giorni), noi preferiamo parlare.

Senza urlare, senza scalmanarsi, senza accapigliarsi. E ragionare. Senza lasciarsi prendere dal “flusso emotivo”, dall’idolatria, dal culto della persona, dai colpi di testa, dalle follie. L’antimafia non è rissa con chi è “colpevole” di non pensarla come te: quello è fascismo. L’antimafia è confronto, rispetto, umiltà, serietà. Quindi scusateci se spesso non ci vedrete dentro il coro o, peggio, dentro i “cerchi magici”. Preferiamo starne fuori.

Nella foto: la strage di Capaci

Luciano Mirone