“Ora sto meglio, ma  non dimenticherò mai quello che ho passato”. Comincia così la testimonianza di Alfio Palazzolo, 63 anni, “64 fra qualche mese “ – il dipendente del Comune di Santa Venerina, Ufficio protocollo – che è riuscito a sconfiggere il Covid-19.

Alfio Palazzolo si è ammalato lo scorso 5 marzo ed ha trascorso i primi dieci giorni di malattia a casa con febbre altissima e tosse e i successivi quindici giorni all’ospedale San Marco di Catania. Da un paio di giorni è stato dimesso, è ancora molto debole, ma poter stare a casa, dopo tanti giorni di assenza, lo fa sentire molto meglio.

Il municipio di Santa Venerina (Catania). Sopra: Alfio Palazzolo, dipendente comunale, che ha sconfitto il Coronavirus

“Avere il coronavirus è un’esperienza bruttissima che non auguro a nessuno, ho avuto paura di morire. Non lo dimenticherò mai”. Quello di Alfio è il racconto di una brutta esperienza, per fortuna a lieto fine, che ha il fine di veicolare un messaggio di speranza a chi sta combattendo contro la “peste del Duemila”.

Ha compreso subito di aver contratto il virus?

“No. La diagnosi non è stata affatto semplice. La sera del 5 marzo ho cominciato ad avere la febbre. La mattina era stato a lavorare al Comune. Nel pomeriggio non mi sono sentito bene. Ho immaginato di avere una semplice influenza di stagione e come tale l’ho curata. Ho assunto tante medicine: antipiretici ed antibiotici, ma la febbre non passava. Anzi, la mattina scendeva un poco, ma già verso mezzogiorno saliva vertiginosamente. Più passavano i giorni, più mi sentivo debole e senza forze. Pensavo che la stanchezza fosse dovuta alla febbre alta. Ma il 16 pomeriggio, dopo aver fatto una radiografia che evidenziava una polmonite, mi sono recato al policlinico di Catania per chiedere che mi fosse fatto il tampone. Non è stato facile, mio figlio ha dovuto insistere. In attesa dell’esito, mi hanno ricoverato. In tarda serata è arrivato il risultato: positivo al coronavirus”.

Che effetto le ha fatto?

“Ho avuto un gran paura, ma non ho avuto neanche il tempo di elaborare il trauma che l’indomani  mattina, con un’ambulanza, mi hanno trasferito all’ospedale San Marco di Catania. Le mie condizioni peggioravano. Non c’era neanche il tempo per poter pensare. Mi hanno subito portato in terapia intensiva. Ci sono rimasto per quattro giorni. Sono rimasto sempre vigile, non mi hanno intubato, ma ho portato il casco per quattro giorni”.     

Qual è stato il momento più brutto?

“Non potrò dimenticare quei quattro giorni con il casco in testa. Quel che si prova non si può descrivere. È davvero fastidioso. È un meccanismo che serve per respirare e ricevere ossigeno: una sensazione sgradevolissima, quasi di soffocamento Ancora oggi, quando ci penso, mi sento male. A pranzo e a cena aprivano lo sportellino per farmi mangiare. Non riuscivo a farlo da solo. Mi imboccavano come un bambino. Non avevo appetito. Mandavo giù qualche cucchiaio di pastina. Non mi piaceva. Ma sapevo che mettere qualcosa nello stomaco mi avrebbe fatto bene”.

Cosa pensava in quei momenti, si è mai abbattuto?

“Non ho mai mollato, anche se ero al limite delle mie forze. Dentro di me mi dicevo che non potevo lasciarmi andare e mi facevo forza. Pregavo il Signore. La preghiera mi è stata di grande aiuto, mi dava quella forza e quel coraggio che mi servivano per combattere la malattia. Sono riuscito a non perdere mai la speranza. Mentalmente ripetevo che dovevo superare  questa fase. Avevo mia moglie, i miei figli e la mia nipotina, non potevo dare loro il dispiacere di lasciarli”.

Come comunicava coi familiari?

“In tempi di coronavirus non è possibile ricevere visite. Si è isolati. In più avevo anche il pensiero di mia moglie e di mio figlio. Anche loro hanno contratto il virus, seppur in forma più lieve, e sono stati ricoverati in altri due ospedali. Per i primi giorni, quando sono stato in terapia intensiva, non avevo neanche la forza di parlare al telefono, la voce non  usciva, avevo quel casco che mi dava la sensazione dentro a una campana. Uscito dalla terapia intensiva, mi hanno attaccato per due giorni e due notti un macchinario che mandava aria calda ai polmoni. Ricordo che mi usciva fumo dalla bocca e dal naso. Anche se avessi voluto prendere il telefono e digitare i numeri dei miei familiari non potevo farlo. Mi si appannava tutto, non riuscivo a vedere niente. Nei primi giorni, dato che non ero in grado di parlare, erano i miei familiari a chiamare in ospedale per avere notizie sul mio stato di salute. I medici si rendevano disponibili a rispondere alle telefonate verso le due del pomeriggio. Solo quando sono uscito dalla terapia intensiva e semintensiva, sono riuscito a comunicare con l’esterno. Solo quando ho sentito la voce dei miei familiari, ho provato un conforto indescrivibile”.

Come giudica il personale che l’ha curata?

“Molto gentile, disponibile e attento. Ad un mio cenno arrivavano subito al mio capezzale. Ricordo in particolare una dottoressa, che mi diceva sempre: ‘Mi cerchi pure se ha bisogno, io sono a disposizione’. Il suo sguardo riusciva a rassicurarmi. Tutti, comunque, mi hanno incoraggiato con le loro incitazioni: ‘Non si preoccupi, sta migliorando”.

Vuole ringraziare qualcuno?

“Tutti. I medici, gli infermieri e il personale sanitario per avermi curato amorevolmente, non solo con le medicine e il supporto della strumentazione, ma anche dal punto di vista psicologico, tirandomi sempre su e dandomi coraggio e conforto. Ringrazio tutti i colleghi di lavoro che mi sono stati  vicini, facendomi sentire il loro affetto. Ringrazio anche l’amministrazione comunale: il sindaco, il vicesindaco, gli assessori e i consiglieri comunali, che mi hanno fatto arrivare la loro vicinanza. Un ringraziamento particolare voglio rivolgerlo al primo cittadino, Salvatore Greco, che è stato davvero speciale, informandosi continuamente suo mio stato di salute tramite mia moglie e mio figlio e dimostrandomi di poter contare su di lui. Addirittura, quando mi hanno dimesso, dato che non sapevo come rientrare a casa, e dato che mia moglie era a casa in isolamento e mio figlio era ancora ricoverato all’ospedale, ci ha pensato lui a mandare un’ambulanza della Croce Rossa che ha organizzato il traporto fino a casa. Non ho parole per ringraziarlo”.

Che messaggio vuole lanciare?

“Avere il coronavirus non è una passeggiata, non è una semplice influenza. Io e la mia famiglia siamo stati fortunati e l’abbiamo superata. Ma tanti non ce l’hanno fatta e ci hanno rimesso la pelle. Invito tutti a restare a casa, a mantenere le distanze di sicurezza, a non avere contatti fisici, evitando strette di mani, abbracci e baci. Il virus è un nemico invisibile. E soprattutto invito tutti a rispettare le regole, a lavarsi continuamente le mani e a considerare l’altro come un possibile contagiato. Non dimentichiamo che ci sono molti contagiati asintomatici, che, pur non sapendo di aver contratto il virus, lo tramettono agli altri. Anch’io penso di averlo contratto così”.

Rosalba Mazza