Quando, qualche giorno fa, è apparsa notizia dello scandalo dell’università di Catania con tanto di sospensione di Rettore e docenti, un tam tam di messaggi e telefonate tra ex colleghi di studio ha attraversato l’etere.

Giorgia, con fior di dottorato in filologia moderna, è finita a Berlino; Marco, con la lode in lingue straniere, ha fatto supplenze al Nord  e spera in una prossima chiamata; Agata è rimasta a casa, tiene la pergamena nel cassetto, e fa la contabile per seicento euro al mese. I lunghi elenchi possono diventare tediosi; possiamo riassumere dicendo che la nostra migliore gioventù, quella che studia con passione e sacrificio, ma non ha o non vuole i santi in paradiso, assiste all’apertura del vaso di Pandora con un misto di rabbia e sete di giustizia. Ma qui il mito greco è lontano, trattasi di commediola, scontata quanto un cine panettone. Lo stupore e il sentimento di rivalsa lasciano subito il posto alla consapevolezza che tutto questo rumore ha il sapore della scoperta dell’acqua calda.
Si pubblicano i nomi e i cognomi degli indagati, spuntano pizzini ed intercettazioni. Associazione a delinquere, corruzione, falso ideologico. L’Università trattata come una cosca. È un dolore:  lì gli anni della nostra formazione, lì gli incontri migliori.

Ma come negare che la nostra generazione è stata segnata da devastanti riforme che hanno trasformato il percorso universitario in una raccolta punti e i soliti baroni, sempre lì, a tirare le fila del gioco? Adesso abbiamo i capri espiatori ma forse questi reati si perpetuano dal 1434, anno di fondazione dell’università di Catania.
Chi ha varcato le soglie di un ateneo italiano, qualunque ateneo italiano, già da matricola, ha avuto modo di fare esperienza della fitta rete di amicizie e parentele. Ben presto, sottovoce, si sussurrano nei corridoi le tresche, gli inciuci. “E proviamolo questo concorso…tempo perso: i nomi ci saranno già”. Se non sei in lista, non entri: come nelle discoteche della Playa. E tutti ad emigrare all’estero o ad accontentarsi. Quante intelligenze, senza le amicizie giuste, rimaste ad aspettare, a fare altro, a macinare chilometri. Un esercito di trentenni e quarantenni laureati e precari.
Eccola l’Italietta: che predilige i legami personali, gli affari, il favore piuttosto che il merito. E Giorgia, Marco, Agata e l’esercito di pluri-laureati vittime di un sistema marcio e vittime di se stessi. Perché tutti sanno e nessuno parla. Perché si sa, ma le prove non ci sono, perché è talmente consolidato il pensiero che se non hai l’ammuttata, la spinta, non vai avanti, che il reato diventa normalità. Ed è questa normalità, la rassegnazione verso un ordine costituito, il cancro di un’intera società.
La Magistratura farà il suo corso, le indagini andranno avanti, gli scandali si susseguiranno sulle testate giornalistiche e si scuoteranno le teste. Ma la soluzione potrebbe essere nelle realtà sane (tanti sono gli insegnanti degni di questo ruolo, tanti i giovani preparati e appassionati), la reale soluzione è in una rivoluzione delle coscienze,  in un epocale cambiamento sociale e culturale ad ogni livello.

Marina Mongiovì