“Non esiste alcuna pericolosità sociale, né dubbio alcun sulla provenienza del patrimonio di Mario Ciancio. La verità è che questo processo non si sarebbe dovuto celebrare perché è un falso storico: un errore giudiziario basato su presunti indizi, mai dimostrati, anzi smentiti dai fatti”. Così l’avvocato Carmelo Peluso davanti alla Corte d’appello di Catania che tratta il ricorso dell’editore contro il sequestro e la confisca dei suoi beni disposto dalla sezione misure di prevenzione del Tribunale. Per il penalista la sentenza di primo grado è “basata su una lettura parcellizzata degli atti e su sospetti, non su prove concrete, ma soltanto su indizi”. Ha ricordato anche la visita di Carlo d’Inghilterra e di lady Dyana nel 1985 a Catania ospiti della famiglia Ciancio: “i servizi segreti di Sua Maestà avranno scandagliato tutta la loro vita personale e professionale e se solo avessero avuto un sospetto o un indizio di vicinanza alla mafia avrebbero fatto saltare l’incontro”.
Ma è un aneddoto rispetto a migliaia di pagine di atti consultati riproposti in aula secondo la lettura della difesa. Partendo un presupposto: “Mario Ciancio – ha ricostruito il legale – ha creato la sua fortuna su un vasto patrimonio immobiliare e sui terreni agricoli di cui entra in possesso per la maggior parte negli anni ’60 e ’70”. E nei centri commerciali citati dall’accusa che ipotizza il reato di concorso esterno all’associazione mafiosa il suo “unico ed esclusivo interesse era venderli per guadagnarci”. “I fatti – ha ribadito l’avvocato Peluso – sono nell’informativa dei carabinieri del Ros e sono chiari e intellegibili. Ed è falsa l’accusa di avere concesso lavori in subappalto a ditte in odore di mafia: non troverete mai un solo cantiere aperto da Mario Ciancio, i centri commerciali li realizzavano altri”. E le dichiarazioni dei pentiti, “che parlano de relato di Mario Ciancio”, sono “dati ‘labiali’ non dimostrati” e “in un processo come questo non c’è spazio per ipotesi, ma solo per fatti concreti e provati”. “Abbiamo dimostrato – ha aggiunto – che in questo processo non c’è un solo atto che accusa Mario Ciancio e lo dico da anni ed la quarta volta che lo faccio”.
Sulle indagini patrimoniali l’avvocato Peluso è partito dalla tesi dell’accusa: l’imprenditore negli anni ’70 avrebbe riciclato tre miliardi di lire della mafia. “In quegli anni – ha ricordato il penalista – uno stipendio medio era di 150mila lire e la benzina costava 85 lire al litro. E la mafia avrebbe dato a Mario Ciancio una somma astronomica per l’epoca e gli avrebbe detto investi nell’editoria, gioca con questi soldi… Anche questo – ha osservato Peluso – è un falso storico, lo sanno tutti che negli anni ’70 la mafia investiva nel settore maggiormente remunerativo che era l’edilizia”.
Il procedimento riprenderà il prossimo 1 ottobre per eventuali repliche dell’accusa e poi della difesa.

Nella foto: Mario Ciancio Sanfilippo

Ansa