Commissario di Polizia Mario Ravidà, nelle due puntate precedenti, lei ha detto delle cose gravissime in merito alla mancata cattura del boss Bernardo Provenzano a Mezzojuso (Palermo), verificatasi soltanto un paio di anni dopo le terribili stragi del ’92-‘93. Quindi lei ha confermato il fatto – per averlo vissuto personalmente all’interno della Dia di Catania, dove in quegli anni prestava servizio – che lo Stato, in quel momento, si oppose alla cattura di Provenzano, malgrado i recentissimi eccidi che avevano insanguinato il Paese. Dai processi emerge che a “vendere” Totò Riina nel 1993 (dopo una protezione “statale” di circa un quarantennio)  fu proprio Provenzano, personaggio più “trattativista” di lui.

Totò Riina. Sopra: Nitto Santapaola

Addirittura lei parla di un confidente importantissimo come il capo della Famiglia mafiosa di Caltanissetta, Luigi Ilardo – gestito personalmente dal colonnello dei carabinieri Michele Riccio, col quale lei stesso collaborava – che aveva dato la soffiata “decisiva” per catturare Provenzano. Non solo, ma lei ha pure detto che il Colonnello Riccio fu boicottato dai suoi superiori (in primis il Generale Mario Mori) proprio nel momento in cui il boss corleonese si poteva arrestare. Questo emerge dai processi, ma fa una certa impressione sentirlo da una persona che ha vissuto dal “di dentro” queste vicende. Ora non sappiamo se Provenzano sia stato protetto fino all’11 aprile 2006 (giorno del suo arresto) perché aveva fatto arrestare Riina, oppure perché ricattava lo Stato per la trattativa o addirittura per le coperture ricevute in un quarantennio di latitanza. Ma c’è un altro “giallo” che lei ha vissuto direttamente: l’arresto del capo di Cosa nostra catanese Nitto Santapaola, altro “boss di Stato”, poiché preservato per decenni da una cattura. Santapaola (ancora oggi in galera) è il più “politico”, il più “borghese”, il più “cittadino” fra i tre boss: non puzza di stalla come i Corleonesi, ma odora di salotti buoni. Negli anni Ottanta è stato in stretto contatto con prefetti, questori, comandanti dei carabinieri, magistrati ed editori catanesi. A tal proposito, in questi giorni, è stato confermato dalla Procura etnea che anche Mario Ciancio, proprietario del quotidiano “La Sicilia”, proteggeva Santapaola (addirittura, secondo i magistrati, i due erano soci d’affari) attraverso i silenzi, le menzogne e i depistaggi messi in atto dal suo giornale: una prova ulteriore della rete di protezione di cui il boss catanese godeva, mentre commetteva stragi di carabinieri ed ordinava di uccidere un giornalista come Giuseppe Fava.

Mario Ciancio

Dopo Capaci e via D’Amelio succede che lo Stato, per tacitare un’opinione pubblica sempre più inferocita, arresta Riina e Santapaola (ignorando Provenzano fino al 2006, e Matteo Messina Denaro ancor oggi), ma fa delle operazioni incredibili: non perquisisce il covo di Riina – dove ci sono documenti di fondamentale importanza – e qualche settimana prima dell’arresto di Santapaola, è protagonista di una strana sparatoria a Terme Vigliatore (Messina).

“Santapaola fu catturato nel maggio 1993 nelle campagne di Mazzarone (Siracusa), in un momento in cui siamo in piena Trattativa, cioè quando c’è l’accordo fra lo Stato e Provenzano (e non escludo Matteo Messina Denaro) per far cadere un’ala importante di Cosa nostra. Prima cade Riina (ma non viene perquisito il covo dove poteva trovarsi il papello con le richieste allo Stato) e poi Santapaola. Quest’ultimo cade dopo il mancato arresto di Terme Vigliatore da parte del Ros, in seguito a una sparatoria a dir poco rocambolesca in cui, a dire del Capitano Ultimo che capeggiò l’operazione, scambiarono un inerme cittadino per Santapaola”.

Terme Vigliatore è un comune limitrofo a Barcellona Pozzo di Gotto, città nella quale Santapaola si nascondeva prima di essere arrestato a Mazzarrone. L’ex presidente della Commissione parlamentare antimafia europea Sonia Alfano sostiene che gli apparati statali sapevano con certezza che il boss catanese stava trascorrendo la sua latitanza a Barcellona, ma non lo catturarono lì per evitare di coinvolgere la rete di personaggi potenti (a cominciare dal boss Rosario Cattafi, anello di congiunzione fra mafia, politica, massoneria e servizi segreti deviati) che lo proteggeva in quella zona. Cosa dice in proposito?

“Non conosco le dinamiche barcellonesi, quelle catanesi sì. Allora ci dotarono di certe valigette, le Italcel 900: se non erro ce le prestarono i servizi. Alla Dia di Catania ce ne diedero due. Queste valigette consentivano di caricare quattro o cinque numeri di cellulari e di sentire e registrare le conversazioni dei mafiosi, di acquisire notizie e di chiedere l’autorizzazione alle intercettazioni per il prosieguo delle indagini. Mettemmo sotto ascolto alcune utenze, fra cui quella di un mafioso di grande caratura: un fedelissimo di Aldo Ercolano”.

Chi è costui?

“Non posso rivelarlo”.

Chi è Aldo Ercolano?

“Il braccio destro di Santapaola, nonché il killer del giornalista Giuseppe Fava. Un personaggio di alto livello ‘politico’, a volte sottovalutato perché vissuto all’ombra del grande capo”.

Aldo Ercolano

Basti pensare all’irruzione che una volta il padre di Aldo, Giuseppe Ercolano, fece nella redazione de “La Sicilia”, ricevuto con tutti gli onori da Mario Ciancio, per un articolo sgradito per il quale il cronista venne redarguito e l’articolo corretto nell’edizione del giorno dopo. Ma torniamo al fedelissimo di Ercolano.

“Io penso che Ercolano fosse al corrente di quello che faceva il suo fedelissimo, in accordo con la parte di Provenzano, in quanto per il personaggio che è, credo che non avrebbe mai collaborato con le istituzioni se non gli fosse stato ordinato dal suo capo”.

Dunque lei sta dicendo che questo soggetto, fedelissimo di Ercolano, avrebbe collaborato con lo Stato, con la consapevolezza del suo capo, per l’arresto di Santapaola?

“Che Ercolano sia stato protetto e favorito dalle istituzioni, lo dimostra il fatto che l’ impresa di famiglia non è mai stata toccata, anzi è stata autorizzata a lavorare, malgrado fosse inserita nella black list come ‘impresa mafiosa”.

Cos’è la black list?

“La ‘lista nera’ nella quale sono elencate le ditte mafiose che non possono avere appalti”.

In questo caso che succede?

“La ditta di Giuseppe Ercolano lavorava regolarmente: prelevava la sabbia dalla foce del fiume Simeto e la rivendeva ad altre imprese per fare il calcestruzzo per la costruzione dell’autostrada Catania-Siracusa: sabbia salata, che corrode il ferro e quindi mette in pericolo l’opera pubblica”.

Ed è stata autorizzata?

“Sì. Solo dopo che abbiamo denunciato lo scandalo attraverso il rapporto ‘Cherubino’ che fece scattare l’omonima operazione, fu revocata l’autorizzazione, ma solo per la fornitura della sabbia”.

Quindi fino a quel momento Ercolano lavorava tranquillamente?

“Sì. Il funzionario prefettizio che si occupava di questa cosa, Sinesio, ex autorevole esponente dei servizi segreti, disse di non essersi accorto della ‘black list’. Sapete chi è Sinesio? Si faccia una ricerca su questo nome”.

Angelo Sinesio

Dalla ricerca (notizia Adnkronos, 4 maggio 2012, pubblicata da Repubblica online) risulta che il giudice Alessandra Camassa, deponendo al processo Mori a Palermo, ha dichiarato: “Un ex agente dei Servizi, amico di Borsellino, Ninni Sinesio, dopo la strage di via D’Amelio, mi chiamò per chiedermi di incontrarci e nel corso di un incontro mi fece un sacco di domande sulle ultime indagini di Borsellino. Era insistente, voleva sapere se erano venuti fuori elementi sull’imprenditore agrigentino Salamone e sul ministro Mannino. Io non diedi troppo peso alla cosa, ma mio marito (anche lui giudice, ndr.) si meravigliò di tutte quelle domande’. Durante il pranzo, poi, Sinesio avrebbe spinto la Camassa a riferire delle rivelazioni fatte a Paolo Borsellino dal pentito Gaspare Mutolo sull’ex Sisde Bruno Contrada. ‘Quando finii di parlare – ha detto ancora Camassa – Sinesio si alzò in preda a un attacco di tosse e andò in bagno. Mio marito mi disse: ‘Guarda che è andato a telefonare’. ‘Poi – ha concluso Camassa – seppi che Contrada era stato avvertito delle indagini a suo carico”. Che vuol dire?

“Il mio collega che fece notare a Sinesio l’incongruenza che Ercolano continuasse a lavorare, benché fosse inserito nella ‘lista nera’, fu trasferito nel giro di poche ore in un altro settore della Dia. Sarà una coincidenza, ma è un fatto”.

E allora che succede?

“Sentiamo e registriamo una telefonata nella quale questo mafioso importante del clan Ercolano parla con Antonio Manganelli, allora direttore dello Servizio centrale operativo (Sco). Manganelli dice: ‘Come è finita là?’. Il mafioso risponde: ‘Hanno combinato un casino, hanno sparato a gente alla quale non dovevano sparare…’. E Manganelli chiede: ‘E ora come facciamo?’. Risposta del mafioso: ‘Mi dovete dare una settimana, quindici giorni e ti faccio sapere dov’è” (del contenuto della conversazione sono certo, ma non delle precise parole che ho riportato).

Stiamo parlando della sparatoria di Terme Vigliatore che riguardava Santapaola?

“Era chiaro il riferimento a Santapaola, perché noi sapevamo cosa era successo a Terme Vigliatore”.

Quindi il dottor Manganelli, allora direttore dello Sco, aveva una interlocuzione diretta con il fedelissimo di Ercolano?

“ Sì. Qualche magistrato della Procura di Catania era al corrente di questo contatto, mentre altri che si occupavano della stessa indagine furono completamente tenuti all’oscuro”.

E quindi?

“Santapaola viene catturato con queste modalità. Nel momento in cui l’allora responsabile della Dia di Catania viene a conoscenza di questa cosa, ordina: ‘Nascondiamo immediatamente questa registrazione, non lo diciamo a nessuno’. Manganelli scopre di essere stato intercettato e si incazza di brutto: ‘Che fate, mi intercettate?’. Questa cosa viene chiusa e da allora non si è saputo più niente”.

Questo cosa dimostra?

“Che diversi uffici investigativi erano a conoscenza della trattativa Stato-mafia per prendere (anche) Santapaola. Perché di una cosa dobbiamo essere certi: i grandi boss sono caduti tramite confidenze e trattative, non tramite indagini”.

Luciano Mirone

3^ puntata. Fine