Alla fine del 2012, inaspettatamente, la mia vita subisce un inaspettato arresto e ne comincia una nuova, cui non avrei ambìto, ma che mi ritrovo a dover accettare. A casa mi sento malissimo e vengo portato dai miei familiari al Pronto Soccorso dell’ospedale Vittorio Emanuele di Catania. La diagnosi è molto poco tranquillizzante: pancreatite acuta. Sarà necessaria una delicata operazione chirurgica che solo pochi decenni fa risultava sempre fatale, e che ancora oggi non lascia scampo tre volte su dieci. Per farla breve, si decide di trasportarmi all’ospedale Garibaldi Nesima, perché sia un certo professore, e non altri, a procedere alla lieta incombenza. Rimango lì due mesi, vengo operato il giorno dopo la scomparsa di Lucio Dalla, sopravvivo e torno a casa. Naturalmente, ormai privo di pancreas, ho il diabete, ma, seppur senza ampie falcate, cammino sulle mie gambe e sono in grado di suonare la chitarra come prima. Ma ecco che, dopo un mese, il ventre mi si gonfia, e devo tornare al Garibaldi. “E che ci fai di nuovo qui?” mi chiedono scherzosamente gli infermieri. Io lascio che mi tirino fuori quel liquido tramite un innocuo intervento esterno: un tubicino è collegato ad una sacca, e mentre questa si riempie, il mio ventre si svuota. Sono felice e sollevato, sto per tornare a casa. E invece no. La sera comincio a rimettere sangue a fiumi e tutto svanisce in un mese di coma corredato da sogni e visioni di ogni genere. Per me l’ospedale è una nave che fa avanti e indietro attraverso lo stretto di Messina, guidata dal comandante che è anche il primario. Non mancano videogiochi per i figli dei pazienti.

Mi piace la figlia di questo primario, ma ne dimentico sempre il nome: lei è Federica, e, per ricordarmelo, penso che l’etimologia latina deve essere “ricca di fede”. Solo con questo escamotage quel nome mi viene in mente. I sogni sono diversi, spesso poco piacevoli, e sovente vedono protagonisti infermieri ed infermiere che sono davvero intorno a me, trasfigurati nel mio mondo poco fatato. Nonostante le preoccupazioni e le scarse probabilità in questo senso, ne vengo fuori. Ma con una lesione al cervelletto, dovuta al mancato afflusso di ossigeno, che ha compromesso la funzionalità degli arti superiori e (soprattutto) inferiori. Non solo non cammino più, ma non sono neanche in grado di rigirarmi nel letto. Gli ultimi mesi li trascorro al ‘Calaciura’ di Biancavilla: qui in teoria dovrei fare riabilitazione, ma di fatto sono immobile e scalcio furiosamente quando le povere infermiere (tutte graziose fanciulle)  si prodigano per mettermi sulla carrozzina e portarmi in palestra. Non che lo faccia di proposito: si tratta di impulsi involontari, e le povere ragazze in camice bianco si beccano anche qualche bel calcione. Solo a ottobre sono di nuovo a casa. E’ un sollievo, ma rimango sempre coricato (anche durante la mia festa di compleanno, che si svolge necessariamente nella mia stanza).

Giuseppe Scaravilli mentre suona con I Malibran. Sopra: un primo piano del musicista

Uno dei miei primi pensieri è che la mia carriera di musicista sia finita. Potrò rivedermi suonare solo sui video di YouTube con i Malibran, il mio gruppo attivo fin dal 1988. Del resto non riesco a muovere le dita, a chiuderle, a “sincronizzare” sulla chitarra la mano destra con quella sinistra. Insomma, dopo un’esperienza più che trentennale, tutto è andato in fumo. Non riesco più a suonare una sola nota. Però mi hanno regalato un minuscolo amplificatore, che collego alla chitarra elettrica, ed ogni giorno, a suon di Led Zeppelin (spesso andando dietro ai dischi) riesco a recuperare qualcosa. Con le dita tremanti che mi ritrovo, niente più arpeggi, zero flauto traverso, ma con gli accordi dalla chitarra qualcosa viene fuori. Il basso, che suonavo già in altri gruppi, mi risulterebbe ancora più facile.

E così, alla fine del 2013, i Malibran ripartono, provando da me, al piano di sotto, come ai bei tempi. E’ una grande soddisfazione, e un seppur parziale ritorno alla vita, anche se in sedia a rotelle. Un neurologo, ad un amico comune, aveva confessato la quasi certezza che difficilmente sarei riuscito a suonare di nuovo. E invece pare che non sia così. Anche se, per le prove, devo utilizzare il montascale (una sorta di ‘mezzo cingolato’ che si aggancia sotto la carrozzina), mentre oggi riesco a percorrerle sulle mie gambe, salendo o scendendo reggendomi alle ringhiere. Il mio cervello funziona ancora (almeno quello), e sono io a scegliere e preparare i brani nostri (più qualche cover) adatti alle mie possibilità, con nuovi arrangiamenti che permettano di ‘saltare’ le parti cantate, dal momento che ho perso pure la voce, senza che ciascun pezzo perda di efficacia e senso compiuto. Ordino inoltre i brani in una sequenza che possa funzionare bene dal vivo. Alcune prove le faccio solo con mio fratello alla batteria, per prendere confidenza sia con lo strumento che con le nuove versioni dei pezzi. A noi due si affiancano Jerry Litrico (altro componente storico dei Malibran) e, provvisoriamente, suo fratello Alberto alle tastiere. Quando sento che siamo pronti, invio un sms a Francesca del pub ‘Eight Horses’, chiedendole di farci fare una serata. Lei, che aveva sempre chiesto di me mentre ero in ospedale, mi risponde con un messaggio davvero bello: “Il tuo sms mi riempie di gioia e di emozione, venite quando volete, scegli pure tu la data”.

Giuseppe Scaravilli

1^ puntata. Continua