Tanti, in questi giorni, gli appelli per salvare i posti di lavoro dei giornalisti e di tutti gli altri dipendenti del Gruppo Ciancio che lavorano presso il quotidiano La Sicilia e le emittenti televisive Antenna Sicilia e Telecolor, cui si associa questa testata, con la speranza che – dopo il sequestro e la confisca di 150 milioni di Euro operati dalla magistratura di Catania – tutto si risolva nel migliore dei modi per loro, per le loro famiglie, e per l’informazione democratica in questo Paese.

Detto questo, ci sia consentito di fare delle riflessioni su un argomento delicato e complesso come questo, sia perché coinvolge direttamente, professionalmente e umanamente, altri giornalisti che, pur operando nella stessa città, si sono sempre rifiutati di stare al “gioco”, sia perché non è facile trovare, in tutto il mondo, un editore che contemporaneamente fa affari con boss come Santapaola, Calderone ed Ercolano; copre i loro misfatti più efferati (stragi, omicidi, traffico di droga e tanto altro) attraverso il silenzio, la menzogna e le mezze verità; mantiene inalterato per decenni il monopolio dell’informazione in tre province della Sicilia orientale (Catania, Siracusa e Ragusa); coltiva ottimi rapporti con i vertici delle istituzioni (la politica, l’economia, l’editoria, il giornalismo, la magistratura, le Forze dell’ordine, ecc.), riceve spesso le visite ossequiose di costoro nel suo ufficio di viale Odorico da Pordenone, con tanto di foto pubblicata nel suo giornale.

Giuseppe Fava e l’edizione straordinaria de I Sicilani uscita nel giorno del suo assassinio

L’altro giorno in conferenza stampa il procuratore di Catania Carmelo Zuccaro, gli altri due magistrati Agata Santonocito e Antonino Fanara e gli ufficiali del Ros che hanno indagato sull’editore catanese, hanno spiegato – magari con altre parole – che Ciancio è un colluso, e forse sono stati fin troppo generosi, a meno che qualcuno non ci spieghi per bene cos’è la “vera” mafia e chi è un “vero” mafioso.

Non bisogna aspettare la fine del processo per concorso esterno in associazione mafiosa (nel quale Ciancio è imputato), per dire che questo signore, a prescindere da una eventuale condanna o assoluzione, col suo atteggiamento ha contribuito in modo determinante al rafforzamento di Cosa nostra a Catania, pur al cospetto di stragi, omicidi eccellenti, delitti di ragazzini che una volta si permisero di scippare la borsetta alla madre di Santapaola.

I magistrati catanesi, in conferenza stampa, sono stati chiari: Ciancio è in rapporto coi boss fin dagli anni Settanta: da allora fa affari con loro. Dunque è da allora che i vertici della magistratura e delle Forze dell’ordine in servizio a Catania sanno e fanno finta di non sapere, così come quella parte corposa del giornalismo (catanese e non) che fa parte di quel sistema.

Il fatto incredibile è che – dopo l’assassinio di Calderone – il vero dominus della città (a parte Ciancio e i cavalieri) è stato per tanti anni proprio Santapaola in persona. Sembra incredibile, ma è così. Santapaola uccideva, ordinava delitti e al tempo stesso riceveva prefetti, questori, magistrati, sindaci, vertici dei carabinieri e della polizia alle inaugurazioni della sua concessionaria di automobili. Eppure, fino al 1982, aveva la fedina penale pulita, perché tutti – pur sapendo – contribuivano a mantenerla tale. Durante la latitanza è stato pure peggio: basta leggere le carte del processo Orsa maggiore per rimanere esterrefatti: Santapaola scortato dai carabinieri. Inaudito!

A sgamare il gioco, allora, furono in tanti, ma solo un giornalista, che nel Gruppo Ciancio lavorava, ebbe il coraggio di ribellarsi: Giuseppe Fava, cronista e capo cronista dell’Espresso Sera (il quotidiano del pomeriggio) fin dagli anni Cinquanta, quando ancora Catania e il suo editore non avevano subito la mutazione antropologica dei decenni successivi.

Peppino Impastato

La città di Brancati, di Ercole Patti, di Martoglio era diventata improvvisamente la città di Santapaola. Per Fava fu un trauma. Non stette al gioco e fu licenziato. Meglio Santapaola – che avrebbe garantito soldi – che uno dei più grandi giornalisti d’Europa, che avrebbe dato lustro e fatto vendere copie.

Stesso film un paio d’anni dopo, quando Fava andò a dirigere Il Giornale del Sud, finanziato dal cavaliere Graci: cacciato dopo alcuni mesi per essersi permesso di trasgredire le leggi dei potenti.

Possibile – si chiede qualcuno – che un grande intellettuale come Fava avesse scelto di lavorare in quegli ambienti? Forse la domanda andrebbe posta così: è possibile, in mancanza di editori onesti, decidere di stare alle dipendenze di un Graci? Possibile! Ma a condizione di rimanere libero. Fu quella la condizione imprescindibile che Fava impose al Giornale del Sud con un contratto che lo avrebbe blindato  giuridicamente da ogni forma di condizionamento.

Un passaggio che dimostra come bene e male, nel nostro Paese (soprattutto in Sicilia), spesso coesistono anche sotto lo stesso tetto, in una eterna lotta impari che porta anche alla morte: Aldo Moro e Giulio Andreotti, Piersanti Mattarella e Salvo Lima, Peppino Impastato e suo padre, Giuseppe Fava e Mario Ciancio e Gaetano Graci. Non sempre la verità è bianca o nera: a volte esistono delle sfumature che vanno colte in controluce per comprendere l’essenza profonda della verità.

Ma forse le parole di un grande politologo come Franco Cazzola (che chi scrive ha intervistato diversi anni fa) danno il senso di tutto ciò: “Quando Fava andò a dirigere Il Giornale del Sud era consapevole del mare sporco che gli stava attorno, eppure volle portare avanti quella esperienza, convinto che solo l’informazione libera e la cultura avrebbero affrancato molti catanesi dalla causa della loro disperazione: la corruzione della politica e la collusione con la mafia”.

Mauro Rostagno

Nel giorno del commiato dai lettori del Giornale del Sud, Fava scrisse un pezzo memorabile: “Io ho un concetto etico del giornalismo. Un giornalismo fatto di verità impedisce molte corruzioni, frena la violenza e la criminalità, impone ai politici il buon governo. Un giornalista incapace, per vigliaccheria o per calcolo, si porta sulla coscienza tutti i dolori umani che avrebbe potuto evitare, e le sofferenze, le sopraffazioni, le corruzioni e le violenze che non è stato mai capace di combattere”.

Poco tempo dopo Fava fondò una delle riviste più straordinarie della storia del giornalismo italiano: I Siciliani. Sappiamo come finì.

Raccontiamo questa storia per ribadire che i giornalisti de La Sicilia, di Antenna Sicilia e di Telecolor vanno salvaguardati, ma allo stesso tempo ci chiediamo cosa hanno fatto, loro, assieme ad altri giornalisti che lavorano nelle più grandi testate italiane, e ai vertici delle istituzioni, per ribellarsi mentre quel 5 gennaio 1984 echeggiavano cinque colpi di pistola sparati da Aldo Ercolano e ordinati da Nitto Santapaola contro Giuseppe Fava? Cosa hanno fatto quando la Sicilia – attraverso la penna di Tony Zermo – tentò di depistare le indagini? Cosa hanno fatto quando I Siciliani hanno chiuso? Cosa hanno fatto per evitare che i giornalisti in dissenso venissero emarginati?

Mario Francese

Cosa hanno fatto quando i colleghi di Telecolor sono stati licenziati? Cosa hanno fatto quando al Consiglio dell’Ordine qualcuno pose il veto di assegnare il premio all’autore del libro sulla storia dei giornalisti uccisi in Sicilia e sulle magagne inconfessabili di alcuni editori dell’Isola? Cosa hanno fatto per far conoscere all’opinione pubblica chi era tal Ardizzone, editore del Giornale di Sicilia, e qual era l’ambiente che isolò il cronista di quella testata, Mario Francese, assassinato dai Corleonesi negli anni Settanta? Cosa hanno fatto per raccontare i depistaggi successivi all’assassinio di Mauro Rostagno (di cui tutti, proprio “tutti”, oggi celebrano il trentesimo anniversario dell’assassinio)? Cosa hanno fatto per raccontare come è morto Attilio Manca? Cosa hanno fatto quando all’interno del Gruppo Ciancio c’è stato chi ha tentato di infangare perfino un proprio cronista, il giornalista di Barcellona Pozzo di Gotto, Beppe Alfano, “reo” di avere scoperto il covo di Santapaola in quella città? Cosa hanno fatto quando la Repubblica decise di non aprire la redazione a Catania per non disturbare certi piani? E cosa hanno fatto per far conoscere  all’opinione pubblica i motivi per i quali il giornale di De Benedetti non doveva uscire con le pagine regionali di Repubblica (redatte a Palermo ma stampate a Catania) nelle province di Catania, di Ragusa e di Siracusa?

Ognuno può rispondere con il classico “tengo famiglia”. E lo capiamo. E però facciamo sommessamente notare che ci sono stati giornalisti che per essersi messi “contro”, una famiglia manco se la sono fatta, o se la se la sono fatta dopo tanti anni, o magari sono dovuti scappare dalla loro città.

Ora, in nome di tante famiglie, diciamo che tutti questi lavoratori devono continuare a lavorare. Però smettiamola di dire che i giornalisti sono tutti uguali, e magari cerchiamo di capire il significato più profondo di una parola bellissima: onestà. E magari associamola alla parola “intellettuale”. Cominciamo a fare i distinguo. Perché ci sono giornalisti e Giornalisti. A Catania come altrove.

Luciano Mirone