Egregio Capitano Ultimo, alias Sergio De Caprio, lei nei giorni scorsi ha attaccato duramente il governo, colpevole di averle tolto la scorta, malgrado il grande risultato conseguito nel 1993 da lei, dai suoi superiori e dai suoi collaboratori del Ros dei carabinieri (Raggruppamento operativo speciale) di aver catturato il boss Totò Riina, dopo che costui aveva organizzato le stragi di Capaci e di via D’Amelio, e le stragi che nei mesi successivi hanno insanguinato Firenze e Milano (con la devastazione di un patrimonio storico-architettonico di grande valore) e un mancato eccidio di carabinieri allo stadio Olimpico di Roma, che per mero accidente non si è compiuto.

Quindi lei – insieme al Ros – ha l’innegabile merito di aver catturato quella belva umana che per quarant’anni ha scorrazzato impunemente per l’Italia organizzando eccidi ed omicidi eccellenti e incontrando contemporaneamente degli uomini politici di altissimo livello, che per tutto questo tempo lo hanno protetto (così almeno recitano le varie sentenze dei Tribunali).

Lei, egregio Capitano De Caprio (oggi Colonnello, ma siamo certi che non ci resterà male se la chiamiamo con l’appellativo cui tutti sono affezionati: Capitano Ultimo) ha addirittura parlato di “mobbing di Stato” per l’eliminazione di quella scorta, che sicuramente potrebbe proteggerle la vita da attentati o da aggressioni.

In suo soccorso sono arrivati Rita dalla Chiesa, figlia del generale Carlo Alberto dalla Chiesa (trucidato dalla mafia a Palermo il 3 settembre 1982 assieme alla moglie Emanuela Setti Carraro e all’agente di scorta Domenico Russo) e migliaia di italiani che hanno apposto la loro firma per il ripristino di quella scorta.

Il generale dei carabinieri Carlo Alberto dalla Chiesa. Sopra: il Capitano Ultimo, Sergio De Caprio, oggi colonnello

Noi – per quello che può valere – siamo d’accordo con Rita dalla Chiesa e con i firmatari di quell’appello, non solo perché lei è stato il maggiore artefice della cattura di Riina, ma perché è depositario di segreti inconfessabili sui rapporti fra Cosa nostra, politica e altri apparati dello Stato che per decenni hanno protetto la latitanza non solo di Riina, ma di Provenzano, di Santapaola e di altri boss di primissimo piano. Dunque lei è un potenziale bersaglio che la mafia – e non solo – potrebbe colpire da un momento all’altro, cosa che lo Stato non può e non deve consentire se partiamo dall’idea che lo Stato ha il dovere di proteggere l’incolumità di tutti, specie di chi l’ha servito, anche se questo, ci consenta, è avvenuto in circostanze alquanto discutibili (anche in questo caso, secondo gli atti processuali).

Lei, egregio Capitano Ultimo, ha fatto male – almeno secondo noi – a non svelare i suoi segreti sui torbidi episodi che negli ultimi decenni hanno coperto i mandanti esterni delle stragi e di alcuni delitti eccellenti.

Perché, ad esempio, non ha mai spiegato compiutamente il motivo per il quale – dopo l’arresto di Riina – il covo è rimasto sprovvisto di vigilanza per settimane, consentendo a certe “manine” di sottrarre dei documenti importanti e compromettenti? Perché abbiamo dovuto aspettare le stragi del ’92 e del ’93 per arrestare i capi di Cosa nostra? Perché mentre Nitto Santapaola, durante la latitanza, girava indisturbato in quel di Barcellona Pozzo di Gotto (Messina), e lei, avvisato della presenza del boss, è piombato nella città siciliana, ha inseguito una macchina, dove alla fine il capomafia catanese non c’era? C’è stato qualcuno che l’ha depistata o si è trattato di un clamoroso errore, che comunque ha consentito a Santapaola di cambiare tranquillamente rifugio? Perché – per restare in tema di Barcellona Pozzo di Gotto, micidiale distillato di mafia, politica, massoneria e servizi segreti deviati – il rapporto dei Ros sulla latitanza di un altro boss di Stato (Bernardo Provenzano) è stato insabbiato? Cosa c’era scritto in quel rapporto? Qual era la rete di protettori di cui si avvaleva Binnu ‘u tratturi in quella zona? È vero che per un periodo il Ros si è occupato del rapporto fra la latitanza barcellonese di Provenzano e la morte dell’urologo Attilio Manca, che avrebbe visitato il boss prima e dopo l’intervento alla prostata alla quale “Binnu” si sottopose a Marsiglia nel 2003? È vero che a un certo punto il Ros abbandonò l’indagine? Se sì, perché e, soprattutto, per chi? E perché in diverse occasioni – come sostiene il maresciallo dei carabinieri Saverio Masi e altri componenti dell’Arma – mentre si era sulle tracce di questi latitanti, all’ultimo momento è arrivato l’ordine di fare inversione a U e di lasciar perdere? Di tanti “perché” è costellata la storia d’Italia degli ultimi decenni sui rapporti terribili fra Stato e antistato. Noi le chiediamo di chiarirne solo qualcuno.

E però, egregio Capitano Ultimo, non comprendiamo – pur amando l’Arma dei carabinieri per i grandi meriti di cui si è coperta e per il sacrificio di molti suoi rappresentanti – perché tutto questo silenzio al limite dell’omertà. Lei dirà: sono un soldato e devo ubbidire agli ordini dei superiori. È vero, ma c’è un limite a tutto, anche al dovere.

Anche i militari che per tanti anni hanno tenuto un vergognoso silenzio sul disastro aereo di Ustica (ricorda? Ottantuno vittime) o la morte del soldato di leva Emanuele Scieri, o la morte di Stefano Cucchi, o il delitto di Mauro Rostagno, hanno detto le stesse cose, più o meno uguali a quelle degli ufficiali nazisti che al processo di Norimberga hanno dichiarato che loro non avevano colpa perché dovevano obbedire a degli ordini superiori.

E però, egregio Capitano Ultimo, prima di essere soldati si è uomini. Se certe verità fanno bene al proprio Paese perché servono come lavacro, che ben vengano. Anche perché ci è stato insegnato –da altri ufficiali dell’Arma come lei – che fra la Verità e l’appartenenza bisogna sempre scegliere la Verità. Si pagano prezzi altissimi, più di quelli che in questo momento lei sta pagando con la revoca della scorta (noi non dimenticheremo mai i Salvo D’Acquisto, i dalla Chiesa, i Galvaligi, i Basile, i D’Aleo, i Malausa e i tanti carabinieri di cui si è perso il conto, morti nell’adempimento del loro dovere!), ma in certi casi è alla propria coscienza che bisogna rispondere, non alla “ragion di Stato”.

Luciano Mirone