C’è un luogo della memoria dove la primavera ha un sapore particolare perché l’erba del pianoro e le margherite appena sbocciate sono un tutt’uno con quegli undici nomi scolpiti nella roccia che dopo settantun anni l’acqua e il vento non sono riusciti a cancellare. I nomi delle persone che, mentre l’1 maggio 1947 a Portella della Ginestra si celebrava la Festa del lavoro, furono assassinate dagli uomini di Salvatore Giuliano, con la partecipazione – come sostiene lo storico siciliano Giuseppe Casarrubea – di Cosa nostra, della Decima Mas, dei servizi segreti italiani e americani, e di importanti pezzi delle istituzioni. Questi i nomi scolpiti sul sasso di Portella: Margherita Clesceri, Giorgio Cusenza, Giovanni Megna (18 anni), Francesco Vicari, Vito Allotta (19 anni), Serafino Lascari (15 anni), Filippo Di Salvo (48 anni), Giuseppe Di Maggio (13 anni), Castrense Intravaia (18 anni), Giovanni Grifò (12 anni), Vincenza La Fata (8 anni).

Portella della ginestra. I funerali dopo la strage (dal blog di Leonardo Pisani)

 

C’è un luogo della memoria che evoca la prima strage di Stato dell’Italia repubblicana, ma anche altro, le lotte contadine, l’occupazione delle terre, la vittoria del Blocco del popolo alle elezioni regionali del ’47 (con comunisti e socialisti in testa), la Guerra fredda fra Stati Uniti e Unione Sovietica, la fame e la disperazione della gente comune.

Gente comune come Concetta Moschetto, di Piana degli Albanesi (in provincia di Palermo), che quel primo maggio di settantun anni fa, quando non aveva ancora compiuto quindici anni, perse la madre Margherita Clesceri, e stava per perdere la sorella Eleonora la quale, benché ferita, si salvò per miracolo. Perfino il cavallo morì quel giorno, una maledizione per una famiglia di contadini che disponeva del cavallo come unico mezzo di locomozione.

“La gente di qui, il primo maggio, lo ha sempre festeggiato a Portella”, dice Concetta quando la intervistiamo. “In famiglia, prima d’allora, soltanto mio padre e mio fratello erano stati lì. Quell’anno la mamma disse: ‘Dobbiamo andare, ci dobbiamo divertire’. Nell’aria c’era un grande entusiasmo, anche perché mia sorella Eleonora era incinta di otto mesi. Papà andò a raccogliere le fave e la mamma portò anche il formaggio. Si andò a piedi. Mentre si camminava, la mamma raccoglieva i papaveri e ce li metteva in testa. E noi tutti contenti. Appena arrivammo, ci sistemammo sull’erba. Mio fratello, poco più in là, cominciò a scaricare le cibarie dal cavallo, mentre c’era il comizio”.

Panorama di Portella della Ginestra

Improvvisamente iniziarono i colpi di mitra, e allora si sentirono urla, pianti, imprecazioni: donne, bambini, persone anziane di Piana degli Albanesi e di San Giuseppe Jato restarono insanguinati sui campi. Mia madre recò la mano in bocca e nel naso perché le usciva del sangue, due lacrime le rigarono il volto, ma non disse una parola, si sdraiò per terra e morì. A un certo punto arrivò trafelato mio fratello, ignaro della tragedia: ‘Papà, hanno ucciso il cavallo’. E noi piangendo: ‘Hanno ucciso la mamma’. La sollevarono da terra e la trasportarono in casa di sua madre, dove era nata. Dopo non la vidi più. Frattanto a Portella era rimasta Eleonora ferita. Papà non volle metterla sul camion dove erano stati sistemati i morti e i feriti. Prese l’ala di un aereo militare schiantatosi durante la seconda guerra mondiale sul monte Pizzuta, l’adattò a barella e, con l’aiuto di altri, la portò in paese”.

“Intanto a San Giuseppe Jato – prosegue Concetta – la tragedia si ripeteva: una mamma recava fra le braccia il figlio morto. Da quel momento la vita della nostra famiglia cambiò per sempre. Sei bambini in mezzo alla strada, la più piccola di sei anni. Mio fratello di nove e l’altra sorellina furono dati in adozione ad una famiglia del Nord. Mio padre doveva portare il pane e non poteva badare con tutti”.

La prima pagina de L’Avanti dopo la prima strage dell’Italia repubblicana

Per questa povera gente il clima non cambiò neanche dopo Portella. Nel gennaio 1951 fu ucciso Damiano Lo Greco, che aveva capeggiato i contadini in lotta per un’equa ripartizione delle terre. Quando qualche tempo dopo il presidente americano Eisenouer venne in Europa, qui si organizzò una imponente manifestazione per la pace (dato che c’era la guerra in Corea) e per le terre. Allora il ministro dell’Interno Mario Scelba ordinò: niente scioperi, reprimere qualsiasi tentativo di rivolta.

“I contadini di Piana scesero in piazza lo stesso”, seguita Concetta Moschetto, “compreso papà. Durante la manifestazione i carabinieri arrestarono il sindacalista Petrotta. Mio cognato disse al maresciallo: ‘Ma cosa aveva fatto di così grave?’. ‘Nome e cognome. In caserma’. Passavano le settimane e mio cognato non usciva. Un giorno mio padre incontrò il maresciallo e gli chiese: ‘Ma cosa ha fatto mio genero?’. Nome e cognome anche per lui. Verso le dieci di sera arrivò un plotone di carabinieri armato fino ai denti. Bussarono. Tremavamo come le foglie. Presero papà e lo portarono in carcere. Sei mesi in galera. Più di venti persone, fra cui alcune donne, furono arrestate senza motivo”.

“Mentre mio padre era in carcere mi recai a Palermo per fargli visita. Quando varcai il portone dell’Ucciardone seppi che lo avevano portato a Viterbo per il processo contro la banda Giuliano. Lo avevano convocato come testimone della strage di Portella. Sapete con chi lo avevano messo in gabbia? Con Gaspare Pisciotta, il luogotenente di Salvatore Giuliano, che aveva commesso la strage. ‘Ma con chi mi avete messo’, urlava lui, ‘con l’assassino di mia moglie?”. Da allora sono trascorsi oltre settant’anni, ma quelle ferite non si sono rimarginate.

“Ogni primo maggio – seguita la signora Moschetto – mi metto sul balcone e ascolto in lontananza L’inno dei lavoratori che arriva da Portella. Non è vero che per il dolore si può anche morire. La vita continua. Lo dimostra il bimbo di Eleonora nato un mese dopo la strage”.

Luciano Mirone