Stavolta non è il padre famoso ad essere intervistato, ma il figlio, che racconta i “dissidi bonari” col genitore, le sue esperienze in America, le contraddizioni di un teatro – quello catanese – apprezzato in tutto il mondo ma oggi “abbastanza in declino”, come dice lui stesso. Una conversazione franca, quella con Claudio Musumeci – figlio del grande attore Tuccio Musumeci – che abbiamo voluto pubblicare, perché riteniamo interessante raccontare lo stato d’animo di un figlio d’arte che deve fronteggiare lo scomodo paragone col padre, ma nello stesso tempo vuole essere “sempre e comunque” se stesso, “senza imitazioni”. Nella sua pagina facebook non abbiamo visto una sola foto col padre: evidentemente il ragazzo non vuol vivere di rendita.

Claudio e Tuccio Musumeci. Sopra: padre e figlio in scena

Claudio fa l’attore e il cantante (anni di studio alla scuola di Romano Bernardi, uno dei registi più bravi del panorama catanese, e alla The Lee Strasberg Theatre & Film Institute di New York, un recente debutto canoro a Boston con i testi di Frank Sinatra, Dean Martin e Bing Crosby) e somaticamente somiglia straordinariamente al padre. Rispetto a lui – molto estroverso sia sul palcoscenico, che nella vita – è più introverso e timido (“Temperamento più votato al drammatico, con qualche venatura brillante”), eppure c’è un punto che li accomuna straordinariamente: l’amore per il teatro.

Malgrado l’ampia attività teatrale, l’autore di questo articolo non ha mai avuto la fortuna di vedere Claudio sulle scene, quindi non si può soffermare su degli aspetti che non conosce: e però appassionano la storia e il sogno di un ragazzo molto sensibile che da quando è nato respira aria di palcoscenico, e quando ne è lontano la cerca freneticamente.

“Improvvisamente capiti sulla scena e capisci che la ami davvero – dice –, anche se non sei obbligato a seguire la strada di tuo padre. La prima volta fu nel 1992 al Teatro Stabile di Catania, avevo dieci anni. Turi Ferro, Pippo Pattavina, Turi Scalia, Franca Manetti, Maria Tolu, e mio padre facevano ‘L’altalena’ di Martoglio. Io entravo in scena con Ciccino Sineri che mi teneva per mano. Allora lo Stabile era uno straordinario gruppo teatrale, una famiglia, che oggi purtroppo non c’è. Serviva un bambino che entrava nel salone del barbiere per festeggiare il carnevale. Presero me. Turi Ferro? Beh, stiamo parlando di uno dei più grandi attori del teatro italiano. A un certo punto chiuse il salone (lui interpretava la parte del barbiere), io rimasi in scena e lui non se ne accorse e allora io lo toccai sulla schiena come a dirgli: guarda che sono ancora qua. E lui si inventò una scena a soggetto che fece ridere tutti. Nell’intervallo, mentre ero seduto tra mio padre e Turi Scalia, Ferro mi chiamò: Veni ‘ccà. Mi guardò e mi disse: Tu si ‘cchiù cunnutu ‘i to patri, e mi diede un colpetto sul sedere. Per dire… l’affetto e l’amicizia con mio padre erano straordinari. Poi ebbi una pausa per la scuola per piloti (altra passione che mi ha portato diverse volte negli Stati Uniti). Successivamente feci il ‘Fiat voluntas dei’ con mio padre e Marcello Perracchio. Nel 2006 frequentai il laboratorio teatrale di Romano Bernardi, grande insegnante e regista, molto diverso da altri suoi colleghi: lui è molto ‘strasberghiano’, molto americano, nel senso che insegna le sensazioni della battuta, gli altri sono più meccanici nell’intonazione”.

E in America? “Andai sia per la passione del volo (ho il brevetto di pilota di linea), sia per frequentare una bellissima scuola di recitazione. Lì ho scoperto il canto soprattutto nei casinò di Las Vegas, dove sentivo gli artisti dal vivo. Lì ho cominciato a fare lezioni di canto lirico per dare un’impostazione alla voce. Quando tornai a Catania feci ‘Gli industriali del ficodindia’ (2009). La parte del tenente doveva farla Pippo Pattavina, che per vari impegni non prese parte allo spettacolo. Per giorni cercarono un attore che parlasse un inglese maccheronico, alla fine scelsero me. Un successo pazzesco”.

E la scuola di teatro? “Frequentai la Strasberg Theatre & Film Institute, un istituto fondato nel 1967 dal grande Lee Strasberg, dal quale sono usciti un sacco di attori famosi. Ricordo il primo giorno, entrai, feci il provino e raccontai il mio background familiare. Fu una delle esperienze più belle della mia vita, l’atmosfera era fantastica, molto rispetto fra i ragazzi, grandi insegnanti, Lola Coen e Irma Sandrey che ringrazio per essere stata molto dura con me. Venivo da una scuola più meccanica nell’impostazione del tono. A correggermi inizialmente fu Romano Bernardi (‘Bisogna dire tutto in modo diretto, spontaneo, non c’è bisogno del tono, sennò rischi di essere artificioso), ma quella che mi smontò dentro fu Irma Sandrey, più di Romano. Irma Sandrey era stata compagna di tournée di Al Pacino”.

Claudio Musumeci a Boston mentre riceve un riconoscimento dalla comunità italo americana

La scuola americana è grandiosa, ma quella catanese – da Giovanni Grasso in poi – è di tutto rispetto. O no? “Indubbiamente. Peccato che non esiste più. La scuola dello Stabile funzionava quando c’era gente come Giuseppe Di Martino, Romano Bernardi e Lamberto Puggelli”.

A proposito di Giovanni Grasso. A un certo punto, mentre sei negli Usa, ti imbatti nella figura di questo grande attore catanese morto nel 1930. “Era un attore immenso, che avevo imparato a conoscere e ad amare precedentemente, mentre ero a Catania, leggendo un libro fantastico di Strasberg, Sogno di una passione, dove si parla di Grasso che interpreta ‘Morte civile’: a un certo punto il protagonista muore, ma Grasso aggiunge un particolare: si fa uscire la bava dalla bocca. Nel vederlo recitare, Strasberg, ancora giovanissimo, restò talmente impressionato che scattò dalla sedia e disse: oddio questo si sente male. Qualche giorno dopo invitò (eravamo negli anni Venti) Elia Kazan, Stella Adler e tanti altri artisti del movimento newyorkese, a vedere Grasso. Quella sera l’attore non era in forma. Volevo sprofondare, confidò Strasberg agli amici: tutti mi dicevano, ‘ma sei impazzito, cos’ha di particolare questo attore?’. Grasso era nervoso, si passava più volte la mano nei capelli, aveva capito che non stava rendendo. A un certo punto trovò l’ispirazione giusta e fece uscire fuori il suo temperamento artistico, fece una performance così strabiliante che tutti si girarono verso Strasberg: ‘Questo è un mostro’. Grazie a Grasso il regista americano inventò il famoso ‘metodo’. Addirittura a Buenos Aires c’è un mezzo busto in onore dell’attore catanese”.

“Un giorno ero in classe con Hope Arthur, altra insegnante d’eccezione molto amica di Strasberg. Chiedeva a tutti gli allievi il proprio luogo di nascita: Liverpool, Londra, San Francisco, ad ogni città collegava un attore. E tu di dove sei?, mi domandò. Italy, Sicily, Catania. Oooohhh Catania, Giovanni Grasso. Nooo, vogghiu mòriri (pensai). E lei disse: quando Strasberg parlava di Grasso alzava sempre le mani verso il cielo. E io immaginavo Strasberg che parlava di Grasso con Marylin Monroe, con Paul Newman, con Jack Nicholson, con Robert De Niro, con Al Pacino. Ci rendiamo conto dell’immenso patrimonio culturale che abbiamo a Catania? Eppure ci sono attori catanesi che sconoscono questo incredibile mostro sacro”.

Lee Strasberg, fondatore dell’Actor’s Studio di New York e della Strasberg Theatre & Film Institut

Il rapporto con tuo padre? “Vabbé, ci polemizzo spesso, ma non posso negare che sia un grande animale di palcoscenico. Peccato che per motivi anagrafici non ho visto ‘Cronaca di un uomo’ di Giuseppe Fava”. Perché lo contesti? “Intanto perché sono innamorato di un genere teatrale più moderno. E poi perché, malgrado il successo ottenuto, avrebbe potuto fare molto di più col cinema. Immagina che nel 1985 lo chiamò Jean Jacques Annaud (il regista di ‘Sette anni in Tibet’ e de ‘L’amante’) per dargli una parte ne ‘Il nome della rosa’. In quel periodo mio padre era a New York per fare ‘Pipino il breve’. Il regista disse che lo avrebbe aspettato, ma lui rifiutò. Stessa cosa fece con Fellini quando gli propose ‘La voce della luna’. Incredibile ma vero”. Col teatro però, tuo padre, ha fatto delle grandi cose. “Assolutamente sì, certe tournee mondiali col ‘Pipino’ e ‘Il Berretto a sonagli’ sono indimenticabili”.

E l’esperienza di cantante in America? “Lo scorso autunno sono stato a Boston grazie anche al contributo della giornalista catanese Elisa Guccione, che mi ha fatto da agente. Quando faccio qualcosa in Sicilia, non succede nulla. In America mi hanno pagato profumatamente. Quando sono sceso dal palco mi hanno raddoppiato il cachet”.

Luciano Mirone