“Molte persone si sono improvvisate paladini dell’antimafia e non c’è stata nessuna valutazione sul loro reale operato. L’antimafia è stata utilizzata più come un brand per propri fini personali. Si è verificato in Sicilia così come in altre regioni. Bisogna interrogarsi. Tutto questo finisce per creare disdoro all’antimafia vera”.
Lo ha detto oggi Raffaele Cantone, ex magistrato e presidente dell’Agenzia nazionale anti corruzione (Anac), all’università di Palermo, commentando le indagini su alcuni esponenti dell’antimafia. Questa la notizia battuta alle 10 di stamattina dall’Ansa sulle dichiarazioni dell’ex magistrato. Sulle quali bisogna sicuramente riflettere chiedendoci se il presidente dell’Anac ha ragione, se esagera o se le notizie che ci fornisce sono destituite da ogni fondamento.

Cantone non fa i nomi, e secondo noi fa bene: su un argomento così delicato un po’ di cautela è necessaria, specie se si tiene conto che “le indagini su alcuni esponenti dell’antimafia” sono ancora coperte da segreto istruttorio, o le notizie che circolano su altri – sul loro atteggiamento non proprio in linea con i valori di decine di persone morte per la causa – possono essere destituite di fondamento.

Prima di dire quale, secondo noi, fra le tre, è la risposta giusta, è doveroso spiegare quali, sempre a nostro modesto avviso, sono i valori dell’antimafia ai quali bisogna attenersi, prendendo come modello le persone che, in nome di questi principi, sono state trucidate da Cosa nostra.

L’intransigenza morale. Nei confronti del denaro facile, della corruzione, del privilegio, della raccomandazione e delle “zone grigie” della società, siano esse politiche o di altro genere.

La consapevolezza. Se si fa antimafia seriamente, bisogna sapere che si rischia di pagare un prezzo a volte anche alto: dall’isolamento alla carriera; dalla querela facile ad altre situazioni facilmente intuibili.

La coerenza fra ciò che si dice e ciò che si pratica.

La lealtà e il rispetto nei confronti di se stessi e degli altri.

La cultura della solidarietà, sia nei confronti dei deboli della società, sia nei confronti di chi – non avendo padrini e padroni alle spalle – paga prezzi altissimi. Nel mondo dell’antimafia non sempre è così. Purtroppo – in certi casi – l’egoismo, l’individualismo, il settarismo, l’esigenza di visibilità, la bramosia di potere e di denaro di alcuni soggetti prende il sopravvento sui veri valori. La “cultura della solidarietà” è altra cosa rispetto a tutto questo, e spesso viene confusa con la “cultura dell’appartenenza” (“o con me o contro di me”) che uccide qualsiasi forma di libertà e di espressione che dovrebbe essere alla base delle battaglie contro Cosa nostra. La “cultura della solidarietà” è un modo di fare squadra attraverso l’amicizia, l’ascolto, l’aiuto disinteressato, il sorriso, e tanto altro. È una categoria dello spirito che animò i partigiani durante l’occupazione dell’esercito nazista.

Ci rendiamo conto che le debolezze umane, a volte, prendono il sopravvento sui principi morali, però riteniamo che su certi valori non si possa transigere. Ecco perché pensiamo che Cantone abbia ragione. Con un invito a tutti: stiamo attenti alle strumentalizzazioni di chi, usando le parole dell’ex magistrato, vuole danneggiare “tutto” il movimento antimafia, composto per la stragrande maggioranza da persone perbene.

Sopra: Raffaele Cantone

Luciano Mirone