In una delle città più mafiose della Sicilia accade che un valoroso ex Commissario di Polizia come Giorgio Collura (oggi in pensione), distintosi nella lotta contro Cosa nostra, quereli per diffamazione uno scrittore altrettanto valoroso come Salvatore Mugno, il quale viene condannato da un giudice che per professione e dirittura morale sta dalla parte di entrambi. Un incredibile paradosso che si verifica in una Terra dove succede che gli scontri fra antimafiosi abbiano un epilogo amaro come questo.

Giorgio Collura era commissario a Trapani quando, in un rapporto “storico” stilato all’inizio degli anni Ottanta, fece i nomi di personaggi che in quella città (e non solo) facevano tremare i polsi solo a sentirli: i fratelli Totò e Calogero Minore, i Cavalieri del lavoro di Catania, e poi Nitto Santapaola e i fratelli Nuvoletta di Napoli, dediti al traffico internazionale di droga e armi attraverso la società di import-export “Stella d’Oriente”.

A firmare quel rapporto – primo in Italia in cui venne applicata la legge Rognoni-La Torre, dopo il delitto Dalla Chiesa – fu proprio Collura, assieme al magistrato Giangiacomo Ciaccio Montalto e all’allora tenente colonnello Giuseppe Mirone (padre di chi scrive), comandante del Gruppo dei carabinieri.

Studiosi di mafia trapanese dicono che in seguito a quel rapporto accaddero tre fatti incredibili: Ciaccio Montalto fu ucciso; Giuseppe Mirone incorse in un “incidente” che riguardava un suo collaboratore (su cui fu costretto a fornire spiegazioni ampiamente chiarite in istruttoria); Giorgio Collura subì un “incidente” più grave rispetto a Mirone, dovendo fronteggiare – per ragioni diverse – ferite più dolorose che ci auguriamo siano state sanate da un’assoluzione e da un maxi risarcimento.

Il libro di Salvatore Mugno, “Una toga amara”, dedicato alla storia del giudice Giangiacomo Ciaccio Montalto, oggetto della querela Sopra: Salvatore Mugno

Ho la fortuna di conoscere Giorgio Collura sia personalmente, sia attraverso i racconti fatti da mio padre. In questa sede voglio spiegare – qualora ve ne fosse bisogno – che stiamo parlando di una persona di specchiata integrità morale e di un grande investigatore che a Trapani era odiato dalla mafia e dai Colletti bianchi ad essa collegati.

In periodi di forte concorrenza fra carabinieri e polizia, Collura cercava sempre una collaborazione con i cugini dell’Arma: qualche suo superiore amante del quieto vivere e di qualche strana amicizia non lo vedeva di buon occhio, lo ostacolava e ne bloccava le azioni. Ecco perché lui cercava sempre una sponda dall’altra parte, perfettamente consapevole del mare sporco da cui era circondato, un mare che comprendeva anche quella parte della magistratura che aveva isolato Ciaccio Montalto. Se non si spiegano questi passaggi, non si può mai comprendere la solitudine di questo poliziotto.

A un certo punto la storia di Giorgio Collura si intreccia con quella di Salvatore Mugno, mio vecchio compagno di giornalismo con “Lo Scarabeo”, periodico che in quei primi anni Ottanta fondammo a Trapani assieme a Giacomo Pilati e a Gaspare Maiorana.

Anche su Mugno possiedo strumenti sufficienti per dire che è una persona perbene, abituata a lavorare con scrupolo anche e soprattutto quando scrive libri su Cosa nostra (tanti quelli pubblicati finora).

Per comprendere il valore di questo intellettuale, basti dire che i suoi volumi su uno degli omicidi più gravi della storia trapanese ed italiana, quello del giornalista-sociologo Mauro Rostagno, sono stati acquisiti dai magistrati di Trapani per formulare la sentenza di primo grado di condanna degli assassini. Alla fine Mugno, per l’apporto fornito alla causa, è stato definito dagli stessi magistrati “scrittore valoroso”.

Ecco perché la vicenda che vede Collura e Mugno “l’un contro l’altro armati”, pur essendo entrambi nella barricata che li oppone a Cosa nostra, merita delle riflessioni profonde.

Nella Terra dove i poliziotti, i magistrati, i giornalisti e gli scrittori impegnati contro la mafia vengono uccisi, minacciati e intimiditi, succede che, appena sette mesi fa, Salvatore sia stato vittima di un fatto inquietante: nottetempo ignoti individui hanno incendiato la sua macchina.

La macchina di Salvatore Mugno incendiata

Un episodio su cui non è stata fatta luce, ma non è escluso che qualcuno, dopo la sentenza Rostagno e alla vigilia del processo di Appello (iniziato a febbraio e rinviato al prossimo 13 maggio), stia lanciando segnali, avvertimenti. Una sentenza che ha visto sì la condanna dell’ala militare come i boss Virga e Mazzara, ma dalla quale emergono – grazie anche al lavoro di Salvatore –  inquietanti collegamenti con entità superiori.

Salvatore Mugno è una persona che dell’impegno civile ha fatto una missione di vita. Docente di diritto alle scuole superiori, ha deciso di mettersi “part time” – con decurtazione notevole dello stipendio – per dedicarsi anima e corpo alla scrittura di libri (un centinaio finora), parte dei quali dedicati agli imperscrutabili rapporti fra mafia, politica, massoneria e servizi segreti deviati.

Non è facile trovare un intellettuale che, pur di raccontare la verità, decide di vivere in una situazione economica non proprio idilliaca – con pesanti riverberi nella vita privata – per portare avanti la nobilissima missione di informare una opinione pubblica che, senza il suo apporto, sarebbe sicuramente più povera.

Ecco perché, pur non entrando nel merito di un processo di cui non abbiamo letto le carte, ci dispiace profondamente che l’epilogo sia stato questo. Sarebbe stato bello vedere Mugno e Collura stringersi la mano e vederli lavorare insieme, magari per la stesura di un nuovo libro sui maledetti anni di piombo trapanesi. Li abbraccio entrambi, ma oggi che Mugno è indebolito da questa sentenza – e alla luce del grave attentato che ha subito sette mesi fa – mi siano concessi due appelli. Il primo è rivolto a lui: “Non mollare”. Il secondo alla magistratura, alle forze dell’ordine, alla Società civile, ai giornalisti e agli intellettuali: non lasciamolo solo.

Luciano Mirone