Il 27 ottobre è ricorso il 40° anniversario dell’assassinio del giornalista ragusano Giovanni Spampinato, un assassinio che, a distanza di quattro decenni, continua a fare discutere e a suscitare polemiche.

In questa “lettera aperta” desidero ricordare la figura e la vicenda di Giovanni, ma anche polemizzare con gli autori del film-documentario “L’Ora di Spampinato”, Vincenzo Cascone e Danilo Schininà, i quali, attraverso la loro opera, hanno ricostruito una delle storie più clamorose dell’Italia repubblicana.

 

Carissimi Vincenzo Cascone e Danilo Schininà,

a quarant’anni dalla morte di Giovanni Spampinato, avete avuto il merito di essere stati tra i pochi ad avere ricordato uno degli intellettuali siciliani più lucidi e coraggiosi degli ultimi decenni. Avete realizzato un film-documentario a tratti emozionante ed apprezzabile, ma ahimé, quando vi siete spinti a ricostruire i contenuti, non sempre avete fatto onore alla verità, consegnando agli annali di Storia Patria i luoghi comuni che da quarant’anni avvolgono questa vicenda.

Con incredibile superficialità avete dato uno spazio lunghissimo ad un cronista locale, Gianni Bonina, che, invece di basarsi sui fatti oggettivi, ha fatto delle ricostruzioni personali, consegnandoci come fatti veri delle congetture del tutto soggettive. La vostra superficialità è doppia se si pensa che, a tali argomentazioni, non avete contrapposto le tesi opposte, cioè le mie, non perché non ci fossero, ma semplicemente perché le avete volutamente ignorate.

Con questo non voglio dire che non mi avete dato spazio, anzi, dico il contrario, e vi ringrazio. Ma nel momento cruciale mi avete oscurato. Avrei preferito molti secondi in meno, ma non una censura su dei punti fondamentali sulla figura di Spampinato e sulla ricostruzione del suo delitto. Mettetevi nei panni di chi non conosce la storia: viene fuorviato da una ricostruzione non sempre aderente ai fatti, viene privato dei tasselli fondamentali, si fa un’idea sbagliata.

Non si può consentire di fare andare a ruota libera un giornalista che riproduce gli alibi (ora vedremo quali) portati avanti pervicacemente da un sistema di potere che – sull’assassinio Spampinato – ha coperto molte responsabilità, ignorando l’antitesi, soprattutto quando su quei punti mi erano state poste delle domande precise, e perfino la fonte di quelle affermazioni. A maggior ragione se – avendo una buona conoscenza dei fatti, dato che su questa storia ho scritto un libro – mi sono dichiarato disponibile, su vostra richiesta, a darvi una mano come consulente a titolo gratuito. Cosa non avvenuta.

Quando ho scritto “Gli insabbiati”, il libro sugli otto giornalisti uccisi in Sicilia – che comprende anche il caso Spampinato – non avete idea di quanti mistificatori ho incontrato sulla mia strada. Avevo due possibilità: o censurarli o dar loro corda. Ho optato per la seconda ipotesi. Non solo per un’esigenza di pluralismo dell’informazione, ma perché è importante far comprendere ai lettori le dinamiche che delineano il “contesto”. Alla fine le ambiguità tracimano attraverso i fatti, che sono costituiti dagli atti giudiziari e dalle testimonianze. Voi invece, mi dispiace dirvelo, in certi momenti, avete saltato a piè pari gli atti giudiziari e avete dimenticato l’altra campana, confermando così le teorie sballate che da quattro decenni delegittimano la vittima ed assolvono (almeno moralmente) il carnefice e quella pletora di personaggi che lo hanno protetto.

Quali? Prima di vederlo è necessario spiegare chi era Giovanni Spampinato e cosa avvenne in quel terribile 1972.

Giovanni Spampinato aveva 25 anni quando fu ucciso, era un bravissimo cronista, un grande intellettuale, era contemporaneamente comunista e cattolico. Scriveva sull’unico quotidiano anti mafioso della Sicilia: “L’Ora” di Palermo. I suoi reportage riguardavano essenzialmente le trame del neofascismo in Sicilia, all’epoca legato al fallito golpe Borghese, al regime dei colonnelli greci e al traffico di antiquariato. Egli faceva a Ragusa quello che Peppino Impastato nel frattempo faceva a Cinisi: una denuncia a trecentosessanta gradi sul nesso fra eversione nera e potere democristiano, e quindi fra i campi paramilitari fascisti, gli strani sbarchi nella costa iblea di droga e di materiale di antiquariato, e i viaggi in Grecia di alcuni neofascisti siracusani. Spampinato, come Impastato, aveva capito con molto anticipo i fili di collegamento di una struttura clandestina che in futuro avremmo chiamato “Gladio”.

Ma gli scoop che posero Giovanni all’attenzione dell’opinione pubblica siciliana furono due. Il primo riguardava la presenza di Stefano Delle Chiaie a Ragusa, nel periodo in cui il leader neofascista era ricercato per la strage di piazza Fontana e per l’attentato all’Altare alla Patria di Roma. Il secondo il coinvolgimento del figlio del presidente del Tribunale di Ragusa, Roberto Campria – futuro assassino di Spampinato – nell’omicidio dell’ingegnere ragusano Angelo Tumino, fascista e commerciante di oggetti di antiquariato.

Il cronista de ”L’Ora” fu l’unico, fra i giornalisti ragusani, a scrivere che Campria – anch’egli simpatizzante per l’estrema destra, e detentore di un arsenale di armi non denunciato – era stato messo “sotto torchio” dai magistrati locali dopo il delitto dell’ingegnere-antiquario. Ed anche l’unico a scrivere che Campria e Tumino erano stati visti insieme qualche ora prima del delitto. L’unico a scrivere che, dopo quell’omicidio, il figlio del presidente del Tribunale si precipitò nell’abitazione della vittima per rovistare nei cassetti, “come se volesse cercare qualcosa”. L’unico a scrivere che Roberto aveva raccontato un sacco di balle ai magistrati. L’unico ad avere inquadrato quell’omicidio nel torbido contesto del neofascismo locale e del traffico di oggetti di antiquariato. L’unico a sorbirsi gli insulti del suo futuro assassino, ed anche una querela. Dalla quale fu assolto, anche perché il querelante non ritenne di presentarsi in Tribunale.

Nel frattempo denunciava alla Federazione provinciale del partito comunista italiano: 1) di essere pedinato dalla Polizia; 2) di avere il telefono sotto controllo; 3) di aver notato che l’inchiesta sul delitto Tumino era stata insabbiata in quanto “si vuole proteggere qualcuno che sta molto in alto”; 4) di essere la possibile vittima di una “provocazione” che avrebbe potuto avere effetti devastanti per la sua persona. Dalla Federazione comunista non arrivò alcuna risposta.

Un giorno Campria convocò una conferenza stampa a casa sua, alla quale parteciparono tutti i cronisti locali, compreso Spampinato. Il giorno dopo, il cronista de “L’Ora”, non solo riportò fedelmente la versione di Roberto, ma aggiunse delle parole che possiamo considerare una sorta di testamento spirituale: “Adesso Campria, che probabilmente non c’entra nulla col delitto Tumino, torna nell’ombra”. Una frase che dimostra la sua buona fede e che lo scagiona dall’accusa che qualche magistrato ragusano (segnatamente Giustino Duchi e Agostino Fera, allora impegnati proprio nell’indagine sul delitto Tumino) ripete ancor oggi senza uno straccio di prova: ovvero che Campria avrebbe assassinato Spampinato in seguito ad una serie di “provocazioni” fatte dal giornalista.

Dichiarazioni “completate”, oggi, dall’incredibile difesa d’ufficio nei confronti di Campria da parte del giornalista Bonina. Il delitto Spampinato? Sì, certo, c’è stato, ma dobbiamo considerare un’alterazione dello stato d’animo del suo assassino, che a quel tempo era assillato dalle telefonate anonime in cui veniva accusato di essere l’uccisore di Tumino, basti pensare che prendeva pure dei tranquillanti, dimagriva a vista d’occhio, mica poteva reggere gli articoli di Giovanni. E poi, vogliamo mettere l’odio di classe? Campria era un borghese, Spampinato un comunista, c’era un’avversione condizionata dall’ideologia.

Colpa di Spampinato, dunque, che era comunista e che aveva scritto la verità.

Ma Bonina si spinge oltre, e voi, carissimi Cascone e Schininà, gli siete corsi dietro. Secondo lui, infatti, Roberto Campria sarebbe stato vittima di una congiura ordita all’interno del Palazzo di giustizia di Ragusa per far fuori (metaforicamente parlando) non lui, ma il padre, il presidente del Tribunale Saverio Campria, malvisto da diversi colleghi.

Ammesso che questa circostanza (da inserire tutt’al più nel “contesto”, senza farla assurgere ad elemento “determinante”) fosse vera, è corretto far passare il principale sospettato del delitto Tumino, nonché l’uccisore di Spampinato, come vittima? In verità è vero esattamente il contrario, cioè che Campria – grazie alla posizione del padre – avrebbe beneficiato delle compiacenze dei magistrati all’interno del Tribunale (non solo di Ragusa). Lo dimostrano diversi fatti: 1) l’inchiesta sul delitto Tumino, invece di essere trasferita per “legittima suspicione” al Tribunale di Catania, è rimasta a Ragusa, dove è stata chiusa senza l’individuazione degli assassini, ma in compenso con una serie di calunnie nei confronti di Spampinato; 2) secondo gli atti giudiziari, dopo il delitto Tumino, Roberto Campria si recò dal sostituto procuratore Agostino Fera, e dall’allora comandante della Guardia di Finanza, Carlo Calvano, per confidare loro di essere stato avvicinato da un personaggio insospettabile che gli avrebbe chiesto di trasportare fino a Palermo una valigetta probabilmente carica di droga; 3) nella stessa mattina in cui fu ucciso Tumino, l’antiquario fu visto su una macchina in compagnia del presidente del Tribunale Saverio Campria e della moglie.

E allora sorgono spontanee delle domande: perché l’inchiesta sul delitto Tumino non fu trasferita ad altra sede, dato che il figlio del presidente del Tribunale era implicato? Perché non si accertò il motivo per il quale il presidente del Tribunale e la moglie erano in compagnia di Tumino poche ore prima del delitto? Perché l’ex maggiore della Guardia di Finanza e l’ex sostituto Fera non sentirono il dovere di approfondire la vicenda della valigetta da trasportare a Palermo? Perché non scrissero un rapporto? Perché non individuarono il “personaggio insospettabile”? Perché non si posero una semplicissima domanda: è logico che un “personaggio insospettabile” avvicini il figlio di un magistrato per una missione così scabrosa? È logico un fatto del genere se non esiste un rapporto pregresso fra i due? Perché dopo quella conferenza stampa, Campria cercava sempre Spampinato? Era ossessionato da quello che poteva avere scoperto?

E sì, perché approfondire questi elementi significava spingersi “oltre”, molto “oltre”. Significava scrutare quel mondo misterioso e perverso del neofascismo e della criminalità locale di cui Giovanni aveva compreso i collegamenti e la pericolosità. Un mondo di cui parlò un magistrato illuminato come Tommaso Auletta, il quale nella sua arringa al processo, disse: “Campria ha ucciso Spampinato come prova di fedeltà a quel mondo”. I magistrati ragusani, invece, preferirono mettere tutto a tacere, sperando in una ricomposizione degli equilibri.

Ognuno può dire quello che vuole, ma questi fatti smentiscono una tesi: che Roberto e Saverio Campria fossero vittime, né di macchinazioni, né di pregiudizi, né di una cattiva informazione.

Eppure questi fatti – benché io li abbia spiegati nell’intervista – sono stati incomprensibilmente censurati. Sono fatti che danno un quadro completo di questa storia, della figura di Roberto Campria, dei suoi genitori, del potere e delle istituzioni ragusane che avevano il compito di fare luce sul delitto Tumino e non solo non l’hanno fatto, ma, con le loro omissioni, hanno spianato la strada a Campria per uccidere Spampinato.

Allora come ora si è preferito censurare. Allora Campria si armò per assassinare Spampinato. Oggi si usano le mezze verità per ammazzarlo di nuovo.

Cari Vincenzo e Danilo, mi dispiace dirvelo, ma avete pesantemente macchiato un lavoro che, senza questi gravi “buchi neri”, avrei definito ottimo.

Un saluto.