Adesso che si è conclusa la festa di santa Lucia, patrona di Belpasso, paese ai piedi dell’Etna dove vivo e ho le mie radici, vorrei fare alcune riflessioni assieme ai miei concittadini.
E in queste riflessioni vorrei coinvolgere anche gli amici di fuori, che forse, magari in occasione dei festeggiamenti dei loro patroni, avranno fatto le stesse considerazioni per le ragioni che vedremo.
In questi giorni le pagine di facebook sono state letteralmente invase di messaggi, di fotografie, di post che hanno descritto in maniera gioiosa un rito che da secoli si svolge in questo centro in provincia di Catania. Segnale tangibile di un entusiasmo che da sempre pervade i festeggiamenti della patrona.
Una festa molto bella per i momenti di emozioni che è capace di suscitare, una festa che consiglio vivamente di vedere a chi non l’ha mai vista: le serate dei carri allegorici che rappresentano la vita e la morte della martire siracusana, la messa della tredicina che si celebra alle cinque di mattina, l’“uscita” della santa sul sagrato, la tirata delle corde, la processione…
Una festa che coinvolge l’intero paese, come se la santa fosse un simbolo tangibile di identità che raccoglie tutti, a prescindere dallo status di ognuno.
Dovreste vederli il falegname, il fabbro ferraio, il meccanico, l’imbianchino, lo studente, la casalinga, il professionista, l’impiegato e tante altre categorie sociali, con il freddo di novembre e di dicembre, lavorare col sorriso sulle labbra per realizzare i carri, significativa testimonianza di artigianato locale, che vengono aperti vigilia della festa.
Assisto a queste scene e trovo conforto pensando al fatto che l’identità di questo paese, distrutto per ben due volte dalla lava e dal terremoto (1669 e 1693), sia ancora salda; trovo conforto pensando anche al fatto che con la crisi di valori che sta attraversando la società italiana, mantenere viva una tradizione come questa sia un fatto di grande civiltà.
Poi mi guardo intorno, osservo certe cose e penso rammaricato che la tradizione, da sola, non basta più; che la tradizione, da sola, rischia di diventare un rito ripetitivo, fine a se stesso, se oggi – con le nuove problematiche che affliggono le nostre comunità – non si aggiunge quel famoso “altro” di cui parlava Elio Vittorini: “Credo che l’uomo sia maturo non soltanto per non rubare, non uccidere, e per essere un buon cittadino. Credo che sia maturo per altro, per nuovi, per altri doveri”.
Nei secoli passati i nostri padri – che avevano una grande concezione del Bene comune – spesero la loro vita per questi “altri doveri” e ci consegnarono una città con due banche, una zona industriale, una agricoltura e un artigianato d’eccellenza, e tanto antro che fino agli anni Settanta faceva di Belpasso uno dei fiori all’occhiello dell’intera provincia.
Sappiamo com’è finita: le due banche fallirono e la zona industriale rischia di passare ad altro comune.
Il processo camaleontico che fra gli anni Ottanta e Novanta è iniziato con la mafia e la cattiva politica, sta conoscendo il suo culmine attraverso l’edificazione di capannoni, di centri commerciali e di nuove cave di pietra che stanno infliggendo una grave e irreversibile ferita all’intero territorio.
Un territorio di incomparabile bellezza, dissodato col sudore e con la tenacia di quei padri che sottrassero immense masse laviche alla natura e su quei terreni coltivarono l’ulivo, il ficodindia, il mandorlo, il pistacchio per dare un futuro alle nuove generazioni.
Un territorio che con le sue svariate risorse, se opportunamente valorizzato, potrebbe rappresentare un formidabile volano per l’agricoltura e il turismo d’eccellenza, quindi per la crescita economica e sociale della sua popolazione.
Ebbene, cosa fanno oggi i figli di quei “grandi” padri? Invece di custodire gelosamente luoghi come questi, in nome di un malinteso senso di progresso consentono di distruggerli diventando complici indiretti di una devastazione che sta modificando e mortificando una cultura e una economia esistenti da sempre.
Che tristezza vedere quegli immensi capannoni abusivi costruiti non nelle aree industriali o artigianali (come è giusto che sia), ma in aree agricole di grande pregio. Che tristezza vedere un popolo che alle ultime elezioni (appena due anni fa) ha dato oltre l’80 per cento dei consensi a un sindaco-ingegnere che, alla stregua di un signorotto medievale, da trent’anni fa il bello e il cattivo tempo. Che tristezza vedere come Belpasso rischi di perdere buona parte del suo migliore territorio a beneficio della frazione di Piano Tavola, a causa della forte attività “progettistica” dei “soliti noti”. Che tristezza vedere come cali improvvisamente il silenzio quando si parla di questi argomenti, come se le coscienze fossero state sequestrate da certi “spiriti intoccabili”.
E allora care amiche e cari amici di Belpasso, come la mettiamo? Parliamo di “amore” per il nostro  paese e intanto consentiamo che il nostro paesaggio e le nostre bellezze vengano distrutti? Parliamo di “identità” e intanto permettiamo ai “soliti noti” di sottrarcela e di sottrarre il nostro futuro? Ci diciamo cristiani e poi consentiamo la profanazione della natura, che è l’anima stessa di Dio Padre Onnipotente?