Quando un talento del calcio fallisce il dribbling della vita ed entra – non come vittima, ma come carnefice – in quel girone dantesco fatto di estorsori, di usurai e di malavitosi  che affollano una città come Palermo; quando un ex calciatore come Fabrizio Miccoli, ex rosanero (miglior marcatore della storia del club con 81 reti), ma anche della Juventus, della Fiorentina, della Ternana, del Benfica e perfino della Nazionale (10 presenze, 2 gol), viene condannato dalla Cassazione a 3 anni e 6 mesi di carcere per estorsione aggravata dal metodo mafioso (si era rivolto al figlio del boss della Kalsa per “recuperare” dei soldi); quando definisce “fango” un magistrato come Giovanni Falcone, bisogna riflettere sul nostro modo di vedere gli idoli e sul rischio di poterne emulare i gesti: il colpo di tacco resta un colpo di tacco, ma la vita è un’altra cosa. Se proprio non possiamo farne a meno, imitiamo (o cerchiamo di imitare) il colpo di tacco, ma teniamoci alla larga dallo squallore che anche un campione può esprimere fuori dal campo.

Quante finte, quanti dribbling, quanti gol (metaforicamente parlando) vediamo ogni giorno, restando ubriacati da chi li fa, senza riuscire a scindere il gesto dal suo autore?   

Il discorso ovviamente non riguarda solo Miccoli  (metafora più marcata e più sfacciata di tanta idolatria che si vede in giro), ma tanti (tanti, non tutti, senza generalizzare) altri “simboli” più famosi (non solo del mondo del calcio) che la tivù spesso ci propina in modo distorto, portandoci ad identificarci con loro, a illuderci di essere come loro, a farci manovrare da loro, a farci dimenticare che nella vita possiamo essere persino migliori di loro.  

L’idolo ammiriamolo quando fa un bel tackle, ma fermiamoci lì. Dopodiché volgiamo il nostro sguardo altrove e guardiamo ai Maestri, quelli veri, come Giovanni Falcone. Seguiamo loro.

Nella foto: l’ex calciatore Fabrizio Miccoli

Luciano Mirone