Quattro donne sul palcoscenico. Vestite di nero, distrutte dal dolore, afflitte da ferite che non si rimargineranno mai. Sono le madri, le mogli, le figlie, le sorelle, le familiari delle persone uccise dalla mafia.

Sono le vicende di Francesca Serio (madre del sindacalista Turiddu Carnevale), di Felicia Bartolotta (madre di Peppino Impastato), di Silvana Musanti Basile (figlia del capitano dei carabinieri Emanuele Basile), di Rosaria Costa (moglie del poliziotto Vito Schifani), di Piera Aiello (cognata di Rita Atria),  di Daniela Ficarra (madre del piccolo Giuseppe Di Matteo), di Michela Buscemi (madre di due fratelli uccisi dalla mafia) e di migliaia di altre donne che da anni piangono su delle tombe che custodiscono quei corpi troppo giovani.

Donne che rompono la secolare omertà e parlano, raccontano, diventano la metafora di una ribellione che non è solo collera o rabbia, ma vera e propria presa di coscienza per un mondo che rifiutano e disprezzano.

Quattro donne sul palcoscenico che non recitano solamente, ma si immedesimano e diventano le protagoniste “vere” delle vicende che narrano. Basta vedere le loro facce: compunte, affilate, distrutte.

Ed ecco allora che Cinzia Caminiti, Barbara Cracchiolo, Sabrina Tellico e Simona Gualtieri si trasformano nei simboli di una rivoluzione fatta di indignazione e di paura, ma anche di coraggio e di dolcezza.

Fondamentale il ruolo di Cinzia Caminiti, regista, autrice, deus ex machina di questo spettacolo dal titolo eloquente: “Libere, donne contro la mafia”, archetipo di una tragedia greca dei nostri tempi, ispirata al mondo classico ed esposta in chiave moderna per l’originalità delle idee, e (permetteteci la retorica) per la genialità di avere scandagliato un animo femminile di cui finora pochi hanno parlato.

Un’opera che dovrebbe entrare nelle scuole e nei grandi teatri italiani – dopo essere stata al Canovaccio e al giardino Giuseppe Fava di Catania, oltre che a Palermo al cospetto di molti familiari di vittime di mafia – per l’originalità con la quale decenni di storia italiana – non solo siciliana – vengono passati in rassegna.

Solo una donna, con la sua sensibilità e la sua delicatezza, poteva descrivere la sofferenza inferta a una madre, a una moglie, a una figlia, a una sorella da una mafia primitivi e selvaggia che scioglie nell’acido un bambino di undici anni, sfigura a colpi di lupara una ragazzina di diciassette anni (Graziella Campagna) “colpevole” di avere scoperto la vera identità del super latitante Gerlando Alberti.

E solo delle brave attrici potevano ripercorrere il dramma umano della vedova Schifani durante il funerale di Giovanni Falcone, o di Rita Atria che racconta al giudice Borsellino i segreti di Cosa nostra, o di Felicia Bartolotta che lotta per una vita per ottenere verità e giustizia sulla morte del figlio Peppino.

C’è una frase in questo spettacolo che lascia tramortiti come una martellata in fronte: “No, io in Sicilia non ci torno”. Sono le parole di Silvana Basile che racconta quello che successe a Monreale  una sera di molti anni fa: allora aveva quattro anni, Silvana. Suo padre la teneva in braccio, sua madre era accanto a loro, tutti e tre felici, stavano vedendo i fuochi d’artificio e la processione del santo patrono. I killer irruppero  all’improvviso dal vicoletto e fecero fuoco, avevano l’ordine di togliere dalla faccia della terra quel capitano dei carabinieri che stava conducendo brillantemente le indagini sui corleonesi. Emanuele Basile protesse la piccola col suo corpo che stramazzò per terra sopra di lei, mentre il sangue gli usciva a fiotti e la bambina piangeva terrorizzata. Adesso lei abita al Nord. Non si può può capire la fatica immensa che ha fatto per ricostruirsi una vita. “No, in Sicilia non ci voglio tornare”. Parole vere, che sembrano fluire dal mondo greco, parole che questo Paese deve conoscere.

Come deve conoscere le parole di chi rimane e continua a lottare per una verità mai svelata per intero.  Questo lavoro fa giustizia delle tante lacrime versate.

Nella foto: un momento dello spettacolo

Luciano Mirone