Qual è il futuro del Movimento 5 Stelle con la guida di Giuseppe Conte? L’ex presidente del Consiglio è adatto a rilanciare i 5S? L’alleanza col Pd condizionerà la vita dei pentastellati?

Non si può rispondere a queste domande se prima non ci chiediamo chi sono i Cinque Stelle, qual è la loro identità e perché sono nati (2009).

Il movimento fondato da Grillo e Casaleggio nasce essenzialmente come forza d’opinione, mette al centro “la protesta” nei confronti di una politica che, dopo Mani pulite, non è riuscita a liberarsi dal malaffare, dalla collusione, dalla partitocrazia, dalla burocrazia, da un’economia basata sul petrolio, sul cemento, sul profitto selvaggio e sullo sfruttamento dell’uomo e della natura.

Il “vaffa day” è la sublimazione della protesta, ma il fatto che ci sia la protesta non presuppone la mancanza di proposta, come da anni ripetono certi detrattori. La proposta c’è, ma almeno all’inizio è implicita: è chiaro che se sei contro i disvalori, sei indirettamente per i valori, e quindi per una politica dell’etica, per una burocrazia snella ed efficace, per un’economia pulita che metta al centro l’essere umano e l’ambiente.

Già questo è un manifesto politico rivoluzionario, intanto perché i partiti nati dalle ceneri di Tangentopoli non sono riusciti a mettersi in sintonia con questi principi, e poi perché certe linee programmatiche si legano all’ostracismo ordito della Rai nei confronti di Beppe Grillo, accusato di Lesa Maestà solo per aver fatto satira su un sistema corrotto.

Le idee del M5S ricordano molto quelle portate avanti – all’inizio degli anni Novanta – dalla Rete, con tre differenze essenziali: il movimento di Leoluca Orlando aveva una “filosofia” basata sui valori del cattolicesimo democratico e del socialismo riformista, faceva una dura lotta alla mafia e ai poteri occulti (dalla P2 alla massoneria) ed aveva tanti leader (forse troppi) portati più ad oscurare la base che a valorizzarne le potenzialità. È finita come sappiamo, fra azioni di “sabotaggio esterno” (censure di ogni tipo, disinformazione selvaggia dalle reti berlusconiane, dalla Rai e dai giornali, fortissima unità fra le varie entità dell’ancien regime che trovarono in Berlusconi la sintesi per la rioganizzazione di un sistema messo in crisi dall’indignazione popolare scaturita dalle stragi e dalle inchieste di Milano e di Palermo) e palese dimostrazione di immaturità interna, a cominciare dal narcisismo e dai litigi.

Il partito di Grillo ha una filosofia “green” in tutti i sensi (un leader che se ne sta in disparte, interviene al momento giusto, e valorizza una base di giovani alla prima esperienza politica), con una grande capacità di tenuta e di resistenza, come quella che dimostrò diversi anni orsono quando attraversò a nuoto lo Stretto di Messina.

Ostacoli e tentativi (anche in questo caso “esterni”) di fare implodere il movimento ce ne sono stati tanti, ma bisogna ammettere che Beppe è riuscito a cavarsela con intelligenza e con doti strategiche non comuni, al punto da blindare certe tentazioni con una serie di regole (criticate aspramente da noi) che vietavano severamente le alleanze fra il M5S perfino con le liste e movimenti locali distintisi per le battaglie civili e politiche portate avanti.

Grillo aveva le sue ragioni: in un Paese nel quale la corruzione e il trasformismo, dal Palazzo si sono estese alla Società civile non è facile evitare “contaminazioni”. Ma al tempo stesso aveva i suoi torti, dato che non capiva che l’alleanza è il sale della politica (semmai bisogna mantenere la barra a dritta senza farsi condizionare dai venti che soffiano impetuosi da tutti i lati).

Lui credeva di cambiare il Paese mediante il fatidico “cinquantun per cento” grazie al quale avrebbe colorato di “giallo” l’emiciclo di Montecitorio.

Ma la democrazia (fortunatamente) è molto più complessa degli ingenui propositi di un leader: fino a quando sei all’opposizione certe dinamiche funzionano, ma quando l’elettorato ti vota in massa perché vuole che tu vada al Governo, hai l’obbligo di cambiare strategia.

Esattamente questo è successo nel 2018, quando il M5S ha ottenuto il 32 per cento dei voti: tanti per una formazione  che concepisce la coalizione come mezzo per dare vita a un esecutivo, pochi per governare da soli. Quindi bisogna allearsi.

Il movimento propone una coalizione al Pd, il quale, “ferito e indignato” per gli attacchi furibondi subiti dal M5S per l’ambiguità mostrata negli ultimi anni, risponde di no. A quel punto si rivolge alla Lega, che accetta. L’esperienza dura un anno. Poi implode a causa delle idee stravaganti e razziste di Salvini.

Quell’anno tuttavia si rivela importante per smussare certi angoli fra M5S e Pd, per avvicinare le parti e comprendere che alcuni valori delle rispettive basi (dalla questione morale all’economia sostenibile, dal lavoro al rispetto dell’ambiente) sono comuni. Parliamo di “basi”, non di leader, perché nel Pd, soprattutto sull’etica, qualcuno di questi soffre di orticaria solo a sentirne parlare.

Il movimento di Grillo pesca dal cilindro un avvocato e docente universitario assolutamente sconosciuto, Giuseppe Conte, riuscendo ad imporlo con successo prima alla Lega e poi al Pd. Sia nel primo che nel secondo caso, Conte dimostra doti non comuni di sintesi e di equilibrio: riesce a dialogare diplomaticamente con Salvini pur non mostrando subalternità (il che è tutto dire), lo stesso riesce a fare successivamente col Partito democratico che, anzi, si rigenera e cresce nei sondaggi grazie all’alleanza coi 5S.

Al centro di questa nuova politica, l’avvocato mette una parola considerata obsoleta dai partiti tradizionali: lealtà. Che associata all’intelligenza e alla competenza, in politica, a volte, può rivelarsi pagante, specie se il Pd nel frattempo elegge come segretario il governatore del Lazio Nicola Zingaretti, che si mette subito sulla lunghezza d’onda dell’inquilino di Palazzo Chigi.

C’è voluto un atto contrario al concetto di lealtà per far cadere il governo M5S-Pd che, con i limiti che sappiamo, ha portato a casa risultati impensati, a cominciare da un nuovo rapporto con l’Europa, da cui ha ricevuto ben 250 milioni del Recovery fund. C’è voluta l’azione sconsiderata di Renzi per aprire una crisi al buio in piena pandemia (a proposito: siamo ancora in attesa dei “miracoli” del nuovo esecutivo).

Anche in questo caso, il M5S dimostra una maturità di cui il buon Bersani (ecco una persona che ci piacerebbe rivedere come futuro leader della politica italiana, anche se è stato Presidente del Consiglio, e segretario del Pd) parla da almeno due anni: prende atto della crisi al buio, comprende il momento drammatico che attraversa il Paese, evita barricate, accetta Draghi come nuovo Presidente del Consiglio e – suo malgrado – fa il Governo anche con Berlusconi e con Salvini.

Nel frattempo Zingaretti sbatte la porta della segreteria del suo partito e si dimette esprimendo “sdegno” nei confronti di alcuni esponenti del Pd che, malgrado i morti e i contagi del Covid, “pensano solo alle poltrone”. Gli subentra Enrico Letta che fin dalle prime battute mette in cima alla sua agenda politica il dialogo col Movimento Cinque Stelle.

Il quale, dal canto suo, capisce che – in un momento di crisi di consensi – il nuovo leader deve essere Conte. Solo il presidente del Consiglio uscente – ancora molto amato da un pezzo consistente di Paese – è in grado di rilanciare il M5S arrivato – secondo i sondaggi – al 17 per cento.

Ma quale deve essere il ruolo dell’Avvocato all’interno di quel partito? Quale strategia dovrà adottare per continuare a portare avanti l’alleanza con le forze di sinistra (il Pd e Leu), continuando a mantenere l’identità dei Cinque Stelle?

Da un punto Conte deve ripartire: dalla consapevolezza che il suo movimento – con tutti gli errori commessi finora – ha dato un contributo fondamentale al cambiamento della politica di questo Paese. Se non ci fosse stato il M5S, l’Italia avrebbe svoltato a destra e sarebbe sprofondata in una crisi morale di proporzioni gigantesche anche a causa del Pd, che stenta ancora a ritrovare la strada maestra segnata dai padri fondatori della Democrazia cristiana, del Pci e del Psi, di cui il Partito democratico è sintesi.

Conte ha delle scelte obbligate da fare: marcare l’identità del suo partito, piantare dei paletti profondi sulla questione morale e sul nuovo modello economico da intraprendere (rispetto dell’uomo e dell’ambiente), gettare un ponte con il meglio che oggi offre la Società civile. Senza quel “ponte”, il M5S non ha molta strada da fare. Il resto deve partire da qui.

Solo così il M5S potrà costringere il Pd a cambiare, a rinnovarsi, a uscire fuori dalle ambiguità che – soprattutto in provincia – lo caratterizzano. Il Pd ha bisogno di modernizzarsi partendo dall’esempio dei Padri fondatori. Non possiamo assistere allo spettacolo di certi esponenti del partito alle prese con problemi giudiziari, alle ambiguità, al fascismo di sinistra, alle alleanze sottobanco e ai compromessi da vecchia politica. C’è bisogno di aria fresca.

Nella foto: il nuovo leader del Movimento Cinque Stelle, Giuseppe Conte, ex presidente del Consiglio

Luciano Mirone