Un libro che racconta come l’editore dell’unico quotidiano presente a Catania abbia messo sotto scacco una città e diverse province siciliane dove quel giornale ha sempre avuto il monopolio anche attraverso i rapporti (secondo i magistrati) con i potenti boss di Cosa nostra Santapaola ed Ercolano (rispettivamente mandante ed esecutore del delitto di Giuseppe Fava), con certa politica e coi famigerati Cavalieri del lavoro, senza mai pagarne il fio. L’editore è Mario Ciancio, il giornale “La Sicilia”, il personaggio non è potente solo alle pendici dell’Etna ma in tutta Italia. Basti pensare alla presidenza della Federazione italiana editori giornali che Ciancio ha ricoperto per alcuni anni (predecessore addirittura di Luca Cordero di Montezemolo), alla vice presidenza della più importante agenzia italiana di notizie ( l’Ansa) e alle quote azionare nel gruppo L’Espresso-Repubblica che hanno impedito al quotidiano romano di aprire una redazione a Catania, come era nei progetti iniziali dei suoi editori.

La copertina de “Una città in pugno” dello scrittore Antonio Fisichella. Sopra: l’editore catanese Mario Ciancio e la redazione del quotidiano La Sicilia a Catania

Con questo libro, “Una città in pugno” (Mesogea), lo scrittore Antonio Fisichella ripercorre la carriera del “padre-padrone” dell’informazione etnea attraverso una ricerca che mette insieme i vari tasselli finora sparsi in vari capitoli di altri libri, ma mai raccolti in un unico testo dedicato a questo personaggio che per furbizia – scrive Isaia Sales, che ha curato la prefazione – supera perfino Berlusconi, anche lui editore, il quale per difendere i propri interessi è dovuto scendere in politica, mentre Ciancio, grazie al suo immenso potere, non ha avuto neanche bisogno di farlo.

Del resto, per ossequiarlo nel suo ufficio di Viale Odorico da Pordenone (sede del suo quotidiano) si sono scomodati perfino Carlo e Diana d’Inghilterra, oltre a presidenti del Consiglio, ministri, presidenti di Regione, sindaci, assessori, consiglieri comunali e… naturalmente mafiosi, i quali in quella redazione potevano metterci piede come e quando volevano e magari spedire le loro lettere dalla latitanza, pubblicate dall’editore-direttore con tutti gli onori, salvo poi censurare i comunicati stampa e le foto di un politico come Claudio Fava, a depistare le indagini sull’omicidio del fondatore de I Siciliani, a insinuare addirittura che il “proprio” cronista Beppe Alfano (corrispondente de La Sicilia da Barcellona Pozzo di Gotto, scopritore del rifugio segreto di Nitto Santapaola durante la latitanza) potesse essere stato ucciso per questioni di carattere privato, e a censurare la parola “mafia” dai necrologi della famiglia del commissario di Polizia Beppe Montana, ucciso da Cosa nostra negli anni Ottanta.

“Che un libro del genere – spiega Sales – lo scriva non uno storico di professione, non un giornalista di professione, ma un intellettuale pacato e riservato fuori dai circuiti mediatici e professionali, la dice lunga sul ruolo soporifero dell’informazione e sulla vicinanza al potere di diversi esponenti della cultura accademica catanese”. Su questo si potrebbe scrivere (e probabilmente si scriverà) ancora tanto.

Ma intanto restano da capire quattro cose: 1) Perché i magistrati di appello, nel revocare la confisca dei beni dell’editore catanese (circa 150 milioni) disposta dalla Sezione misure di prevenzione del Tribunale di Catania, scrivono che Ciancio non è colluso con Cosa nostra, semmai “vicino”, “contiguo”, al massimo “amico” (senza però un doppio scopo), e contraddicono addirittura quello che scrive la Procura sulle cointeressenze fra Ciancio e i mafiosi? 2) Perché il giornale di Ciancio si è sempre adoperato per coprire Santapaola? 3) A chi ha fatto comodo il delitto Fava, che con I Siciliani aveva rotto il monopolio dell’informazione a Catania, e oltre Catania ? 4) Qual è il vero significato che bisogna dare al termine “mafioso”? (luciano mirone)

Il fondatore de I Siciliani Giuseppe Fava

Quello che segue un brano del libro di Antonio Fisichella:

“1967 – 2019. Incastonata dentro queste due date si svolge una delle più singolari vicende del nostro Paese.

Nel 1967 Mario Ciancio diviene direttore de La Sicilia, giornale fondato nell’immediato dopoguerra dallo zio materno Domenico Sanfilippo. Dal fratello della sorella verrà adottato, ne assumerà il cognome, ed erediterà, oltre al giornale, un enorme patrimonio e migliaia di ettari di agrumi collocati intorno alla città di Catania.

Nel settembre 2018 la Procura della Repubblica sequestra le società e i beni di Mario Ciancio Sanfilippo, il potente editore che per oltre cinquant’anni  ha raccontato in regime di monopolio Catania. Una misura di straordinaria gravità motivata da un’accusa infamante: nelle sue plurime attività economiche si è avvalso di capitali di provenienze illecita. Alle misure preventive si accompagna il processo che lo vede imputato di concorso esterno in associazione mafiosa.

Si tratta, come è del tutto evidente, di accuse gravissime. Anche per Ciancio, ovviamente, vale l’assunto di fondo che regge uno stato di diritto: nessuno è colpevole fino a sentenza definitiva (…)

Catania si presenta oggi come un enorme enclave, tagliata fuori dal mondo esterno, isolata dal contesto nazionale, lontana dalle rotte dei giornali e tv, oppressa dal silenzio dei suoi intellettuali. Una città invisibile. Nel cono d’ombra che l’ha inghiottita, nei silenzi oltraggiosi che l’hanno attraversata, al riparo da occhi indiscreti ha visto nascere e rafforzarsi un vero e proprio modello, un avanzato e moderno sistema di relazioni tra classi dirigenti, mafia e affari. Uno dei più evoluti del nostro paese. Dove i confini tra economia legale e illegale si appannano fino a compenetrarsi, dove il mondo di sopra, con le sue élite imprenditoriali, professionali e politiche non mostra alcuna incertezza a relazionarsi con il mondo di sotto e con le élite criminali che esso esprime. Dove persino l’area grigia, quella sorta di camera di compensazione e luogo di incontro tra lecito e illecito, tra colletti bianchi e crimine organizzato, ha una sua propria connotazione.

Qui infatti, sono le sue classi dirigenti a connettere a sé il mondo mafioso e non il contrario. Anzi, la criminalità organizzata finisce con l’avere un ruolo secondario e subalterno. Il ponte di comando delle grandi operazioni speculative –  il terreno privilegiato di incontro tra classi dirigenti, economia legale e criminalità organizzata – non è guidato dai mafiosi ma è stato e continua ad essere saldamente nelle mani delle élite cittadine. I quartieri e le strade della città, una parte consistente dei suoi negozi e delle sue attività commerciali si nutrono certo della forza e del radicamento di una mafia che utilizza l’intimidazione e la violenza ma che fa – soprattutto – affari (…).

Il trentennio che ha inizio con il miracolo economico catanese e termina con l’assassinio di Giuseppe Fava ci appare oggi una fase unitaria. E’ in quel periodo che si realizza la modernizzazione di Catania, si plasmano comportamenti, mentalità e nuovi stili di vita. Si consolidano enormi interessi, si consuma il sogno della Milano del Sud, si determinano i tratti di caotica città di servizi e commercio. Ma soprattutto si afferma un lungo ciclo economico imperniato sulla incontrollata (programmaticamente incontrollata) attività edilizia, sulla messa a valore dei suoli, su un mercato politico delle licenze edilizie che si tradurrà in un impressionante sacco del territorio, progressivamente e inesorabilmente esteso ai paesi dell’hinterland. Quel lungo trentennio rappresenta una rottura definitiva con le fasi precedenti: Catania vive la propria grande trasformazione e forgia il suo distorto rapporto con la modernità.

Su queste basi si afferma una classe dirigente che guiderà le sorti della città ininterrottamente fino al crollo degli anni novanta. La conoscenza di quel sistema e la riflessione su di esso non è divenuto racconto condiviso, non si è radicato nella coscienza della città, non ne ha segnato il cammino. Le classi dirigenti della città hanno preferito, per comodità, connivenza, per interesse, tacere. Nessun esame di coscienza è stato fatto e neanche tentato. Si sono auto assolte. Hanno proposto un racconto edulcorato, camaleontico, omissivo. Le voci di un’altra Catania che pure esistevano, sono state di fatto bandite dal dibattito pubblico, trattate in maniera sprezzante ben al di là dei limiti che pure avevano. E tacitate. Con un ruolo decisivo della stampa catanese che proprio in quegli anni celebrava i fasti di un controllo monopolistico dell’informazione senza precedenti in tutto il mondo occidentale. Cosa ha rappresentato per Catania quel trentennio? Una parentesi transitoria, ormai definitivamente chiusa con la scomparsa di molti dei suoi protagonisti? O ha prodotto esiti duraturi, non soltanto sul piano politico e su quello economico, ma ancor di più su quello sociale e culturale? 

L’ipotesi che guida la nostra riflessione è che nella Catania di ieri c’è anche il racconto del suo presente, di buona parte della Catania di oggi: il modello di sviluppo che si afferma in quel decisivo periodo sopravvive al tramonto della maggior parte dei suoi protagonisti e il grumo di interessi che lì si coagula si riprodurrà, in forme nuove, negli anni successivi, fino ai nostri giorni.

In tutto questo tempo, Mario Ciancio Sanfilippo, con il suo giornale, rimarrà al proprio posto. Imperturbabile al divenire del mondo, per oltre cinquant’anni, ha esercitato un potere pressoché assoluto su Catania, determinandone largamente i destini, condizionando il mondo politico, subordinando ai propri interessi lo stesso futuro di una città. Lontano da qualsiasi limite e dal controllo delle leggi, mosso da una insaziabile sete di potere” (antonio fisichella).