Quella mattina avevo oltrepassato il centro abitato di Bronte e transitavo dalla strada per Randazzo, in territorio di Maletto. Davanti a me un paesaggio tra i più belli dell’Etna: la campagna incontaminata, dove il posto dei pistacchi situati più a valle, veniva preso dalle viti, dalle querce e da diverse varietà di albero da frutto; una vallata che si perdeva a vista d’occhio, inframezzata qua e là da buoi, da mucche, da pecore, da capre, da pastori che guidavano il pascolo e da qualche cane che aiutava il padrone a dirigere la mandria; una vallata che si perdeva ai piedi del vulcano che, visto da quaggiù, assume una conformazione diversa rispetto a quello visto dal versante di Nicolosi, che a sua volta ha una conformazione diversa rispetto a quello di Zafferana e di Linguaglossa.

Bronte, monumento al contadino

Qui l’Etna ha le sembianze di un massiccio himalayano, pieno di ghiacciai e di catene montuose, qui alla fine di agosto, quando la terra è arsa dalla calura, quando la sera prende il posto del giorno, mentre i colori dell’imbrunire tingono di arancione l’intera vallata, dalle viscere del terreno si sprigiona una nebbiolina che fa apparire surreale ogni cosa, tutto perde forma e in quel momento ti sembra di vivere in una dimensione senza tempo.

Quella mattina, invece, mentre transitavo da quella strada, vedevo che il sole tiepido inondava la valle e la luce azzurrognola dava forma alle cose, i colori d’autunno addolcivano il paesaggio caratterizzato dal giallo delle stoppie e dal rosso dei rampicanti e delle foglie. E mentre osservavo tutto questo pensavo: ci sono paesaggi belli, e paesaggi che fanno battere il cuore. Questo è un paesaggio che fa battere il cuore. Quando vivi una situazione del genere, succede sempre che di quel luogo vuoi conoscere tutto, la gente, la cultura, gli usi e i costumi, insomma l’essenza. Certo, non si potrà conoscere tutto, ma intanto senti l’esigenza di scoprire una parte di quell’anima.

Improvvisamente svoltai a destra e mi inoltrai per la campagna alla ricerca di qualcuno e di qualcosa che ancora non sapevo bene cosa fossero.

Trovai un’antica casa contadina, degli uomini intenti a vendemmiare. Raccoglievano l’uva, l’accatastavano nelle ceste e la scaricavano in un torchio dal quale fuoriusciva del mosto che aveva il colore del sangue. “Cerca qualcuno?”. Non sapevo cosa dire. Alla fine decisi di dire che mi trovavo in quel posto perché volevo osservarlo, volevo conoscere le gente che popolava quella vallata.

La gente di queste contrade è particolarmente ospitale, genuina anche. Non ho mai trovato persone di qui arrabbiata o corrucciata per qualcosa, sempre sorridente, allegra, solare, sempre pronta a regalarti qualcosa. “Lo vuole un bicchiere di mosto?”, disse il proprietario della casetta. L’uomo entrò, prese un bicchiere di vetro e lo riempì del succo d’uva che nel frattempo affluiva dagli scolatoi. Era dolcissimo. Un distillato di uva e di sole, di terra e di muschio appena spremuto dai grappoli che intanto cedevano altro succo sotto la pressione del ferro.

Per terra, sotto un’immensa quercia, era distesa una rete sulla quale si depositavano le ghiande, cibo preferito dai maiali.

“Abito in campagna”, disse il capociurma. “Lavoro la terra trecentosessantacinque giorni l’anno, non mi posso lamentare”. Era un uomo dolce e ospitale, un po’ tracagnotto. Fece una pausa e pescò un’ispirazione: “Sa che questo lavoro non lo cambierei con nessun altro?”. Perché? “Perché è bello”. Non aggiunse altro.

Bastarono questi pochi indizi affinché mi facessi un’idea di ciò che cercavo. Salutai e proseguii il cammino.

Poco più avanti trovai una masseria. Al centro la casa in pietra lavica. Attorno gli animali. Fuori il proprietario, l’agricoltore Vincenzo Portale, classe 1933, di Maletto, esponente di una civiltà contadina che in queste contrade non è cambiata rispetto a cento o trecento anni fa. Portale alleva di tutto, mucche, capre, pecore, galline, maiali, un mulo e un asino. Coltiva la vite e in questo momento sta facendo il vino, mentre nell’aria si sente il suono dei campanoni legati al collo delle vacche. Dentro un pentolone pieno di mosto riscaldato dal fuoco, ci sono alcune essenze per aromatizzare il vino: carrube, fichi secchi, scorze d’arancia.

Appoggiati a un muro alcuni attrezzi antichi per lavorare la terra. Sembrano usciti da un museo della civiltà contadina, invece sono vivi, gli aratri di legno e quelli di ferro, Portale li usa ancora, come li usavano i suoi avi tanti secoli fa.

“Un aratro lo faccio tirare dal mulo, l’altro da due buoi. Servono per dissodare il terreno. Li ho costruiti con queste mani”. Con quale legno li ha costruiti? Lui in dialetto arcaico risponde: “’U cerru”. Cosa? Noi di altre generazioni non possiamo capire certe poesie e certe musicalità.

“U lignu va, commu ‘u chiammati? ‘U ruru… Commu ‘u chiamma? Un cerru…”. Cos’è ‘u cerru? “U ruru. Niautri ‘u chiammammu accussì. ‘U cezzu…, a cerza”.

Alla fine scopro che ‘u cerru, ‘u ruru, ‘u cezzu e ‘a cerza, è la quercia e che gli aratri, da queste parti, si fanno con il legno di quercia. La punta è foderata di ferro e si chiama “massa”, serve a movimentare efficacemente il terreno. Le altre parti sono “’u rintari” e “a scocca”, che viene legata agli animali. Posteggiato poco più in là c’è il carretto. “Si lei veni quarchi jurnu, ‘u ‘mpaiamu cu mulu, nni mintimu chi me niputi ‘lla supra e nni facemu ‘na caminata”.

Signor Portale, da quanto tempo lavora in questa campagna? “Na vita. Haju fatto sempri ‘u contadinu, di quant’havi chi nascìu ‘nfina ad ora. Puru me patri facìa ‘u contadinu e ‘u patri di me patri. Da matina ‘nfina ‘a sira. A sidici anni ieva a Regalbutu a metiri ‘u frummentu. ‘U me titulu di studi? Niente, non sacciu leggiri”.

Adesso il vecchio Portale si gira e prende un altro attrezzo: “u balancinu”. È un arnese di ferro: serve a bilanciare il peso quando l’aratro è legato all’animale. Abita qui o al suo paese? “A Malettu. Sempri llà. Partevumu a matina, dui e tri cristiani supra ‘a mula, e turnavumu ‘a sira. Ora vaju e vegnu ca machina. Parlannu cu rispetto, ‘i me figghi non volunu chi caminu ca mula, si vergognano un pocu. Ma a voli sapiri ‘a virità? Iu non mi vergognu. Mi vergognu quannu mi tt’àccunu, quannu m’arrestunu”. Perché non è andato a scuola? “Pirchì non si putiva, all’epoca erimu poviri. Semu novi figghi, comu si putiva iri ‘a scola?”. Una volta come si viveva in campagna? “Era ‘na vita sacrificata, zoccu capitava ‘nni manguiavumu, un pezz’’i pani e un pocu d’acqua. Poi facivumu a ricotta, all’apertu, ma ora non chiù, a liggi non ‘u permetti”.

Luciano Mirone