Avevo otto anni quando ci fu la strage di piazza Fontana, con quei diciassette morti e ottantotto feriti, ma io di quel 12 dicembre 1969 ho un ricordo sbiadito. Abitavo in un piccolo paese siciliano, Mistretta, a mille metri d’altezza sul livello del mare, isolato per alcuni mesi dell’anno a causa della neve e delle strade impervie: ogni notizia della tivù sembrava arrivare da un altro mondo, quello surreale del bianco e nero completamente diverso dal microcosmo agro pastorale di quel bellissimo paesino di settemila anime fatto di case di pietra e di tegole antiche, del profumo del pane appena sfornato e delle gelide bufere di neve.

Per la prima volta l’Italia vedeva le immagini di una strage (nel ’47 c’era stata Portella della Ginestra, in Sicilia, undici morti, ma ancora non c’era la televisione e l’immaginario collettivo non poteva vedere l’orrore), eppure non mi rendevo conto di niente. Come potevo? A quell’età si gioca al pallone e si raccolgono le figurine dei calciatori. Che ne potevo capire di strategia della tensione e dei neofascisti che fanno le stragi.

Anzi, a dire la verità, il primo comizio al quale assistetti a quel tempo fu quello di un ex repubblichino, Giorgio Almirante, all’epoca segretario del Movimento sociale italiano, un fascista che molti anni dopo avrebbe partecipato ai funerali dell’ex segretario del Partito comunista italiano, solo che allora io non capivo cos’era un fascista e siccome sentivo dire che Almirante era un grande e affascinante oratore e che quando parlava “accarezzava l’orecchio, andai al comizio. Però sapevo cos’erano i comunisti: gente da cui stare alla larga, da non votare, da emarginare.

La prima pagina del Corriere della Sera dopo la strage di piazza Fontana a Milano. Sopra: la Banca nazionale dell’agricoltura dove fu collocato l’ordigno della strage

Ricordo quel pomeriggio. Almirante su un balcone di una delle case più prestigiose del paese. Il saluto rispettoso che, dalla macchina, rivolse ai carabinieri, prima di parlare, e una frase scandita e amplificata, quando parlò, nel silenzio religioso della piazza gremita: “I nostri giovani non amano la droga, amano le donne”. E i fragorosi applausi ai quali mi aggregai, perché quegli slogan avevano fatto effetto anche su di me, come un bicchiere di vino tracannato tutto d’un fiato da uno totalmente astemio.

Col tempo mi sarei reso conto che l’Italia – malgrado altre terribili stragi, i delitti politico mafiosi e la spaventosa corruzione – sarebbe rimasta come quel bambino di otto anni: astemia (non di vino, ma di cultura) e ubriaca di demagoghi capaci di parlare al ventre della gente.

Ne avrei avuto conferma molti anni dopo, quando un famoso piduista, Silvio Berlusconi, catechizzava i suoi alla vigilia della “discesa in campo”: “Gli italiani hanno la stessa maturità di un bambino di otto anni, per prendere voti dovete usare un linguaggio appropriato a quei livelli”. Lo stesso linguaggio di Sua Eccellenza l’altro Cavalier durante il ventennio.

Allora ero rimasto colpito dal primo uomo che aveva messo piede sulla luna, dalla vittoria mondiale di pugilato di Nino Benvenuti contro Griffith, da Italia-Germania 4-3. La strage di piazza Fontana fu un momento che scivolò addosso a quel bambino ancora troppo innocente per poter capire.

E però – molti anni dopo – alcune domande me le sono poste: perché mi ha colpito l’uomo sulla luna, la vittoria di Benvenuti e Italia-Germania 4-3? Solo ingenuità o il modo di raccontare l’evento da parte della tivù di Stato? Il depistaggio riguardava solo le indagini o il modo di sviare l’opinione pubblica – attraverso l’informazione – dal movente della strage?

Col tempo, grazie alle buone letture, ho capito cos’è il fascismo, chi c’era dietro alla strage di piazza Fontana, chi era l’anarchico Pinelli, chi era Pietro Valpreda, cos’era la vera sinistra grazie ad Enrico Berlinguer, Pio La Torre, Sandro Pertini, che una strage si commette non per “destabilizzare” ma per “stabilizzare” un sistema, che dietro molte stragi c’è stata la loggia segreta tanto cara al nostro ex presidente del Consiglio che ancor oggi fa politica attiva, mentre nel frattempo la magistratura cerca di capire se dietro Capaci e via D’Amelio ci sia lui – come asseriscono alcuni pentiti – oppure no, magari assieme al suo ex braccio destro Marcello Dell’Utri.

Col tempo ho capito che l’unico antidoto per questa ubriacatura di massa è la cultura. Molti non vogliono comprenderlo: evidentemente non hanno mai dubbi (beati loro). Ma noi, quelli che le domande ce le poniamo, abbiamo il dovere di continuare la battaglia e di non rimanere dei bambini che qualcuno vuole manipolare a suo piacimento.

Luciano Mirone