Non sappiamo cos’abbia spinto i deputati del centrodestra presenti all’Assemblea regionale siciliana, Pippo Gennuso, Luigi Genovese, Gaetano Galvagno, Tony Rizzotto, Riccardo Gallo, Riccardo Savona e Michele Mancuso (gli ultimi tre hanno poi preso le distanze dall’iniziativa) a chiedere di indagare sulle vicende che hanno portato all’assegnazione della scorta al giornalista Paolo Borrometi.

Sappiamo però che Borrometi – cronista perbene che ha operato per tanti anni in un avamposto “tranquillo” come quello siciliano – “ha subito un’aggressione a Modica e un incendio nella sua abitazione”, come denunciano i 5S, con l’aggravante di un piano di attentato contro di lui scoperto recentemente dalla Polizia.

Magari l’aggressione potrebbe essersela causata lui stesso, così come l’incendio a casa sua (lo diciamo con ironia, a scanso di equivoci), come in passato è successo agli otto giornalisti siciliani passati a miglior vita, o ad altri che tuttora vivono blindati, ma ci chiediamo che motivo avrebbero avuto le autorità competenti – in un momento delicato in cui in cui le tutele di certe personalità a rischio vengono ridotte: in primis Antonio Ingroia – ad assegnargli una scorta. Che motivo avrebbero gli organi di polizia a parlare di “progetto di morte” nei confronti di Borrometi se alla base non ci fossero dei motivi validi per un provvedimento così drastico.

Delle due l’una: o gli organi competenti (le forze di polizia, l’Ufficio Centrale Interforze per la Sicurezza Personale, composto da dirigenti della Polizia di Stato o generali dei Carabinieri), il prefetto e il ministro dell’Interno hanno preso un abbaglio, oppure c’è un accanimento di determinati settori nei confronti del giornalista, simile a quello innescatosi verso Roberto Saviano, da parte soprattutto dell’ex ministro Matteo Salvini. Lo stesso che avvertiamo quotidianamente sui Social, proveniente da qualcuno che attacca violentemente Borrometi anche sul piano personale.

Ecco, la lettera dei sette deputati dell’Ars (poi diventati quattro) sembra l’eco istituzionale di certi cortili feisbucchiani pronti a sparare fango su chi non si mette su determinate lunghezze d’onda.

Ora, se è vero (come denunciano ancora i 5S) che tra i firmatari di questa richiesta sono presenti “pregiudicati come Giuseppe Gennuso, condannato e arrestato negli ultimi due anni per ben due volte”, è anche vero che il clima che i giornalisti in prima linea respirano in Sicilia è molto pesante.

Se poi guardiamo al “contesto” che attornia la vicenda, il quadretto si fa completo: fra i firmatari c’è Luigi Genovese, figlio di Francantonio, quest’ultimo (fra le varie grane giudiziarie a suo carico) condannato nell’ottobre 2019 in primo grado dal Tribunale di Messina a 4 anni e 2 mesi per associazione a delinquere finalizzata alla corruzione, nell’ambito di un procedimento sui rapporti fra politica e criminalità. E se è vero che le colpe dei padri non devono mai ricadere sui figli, è anche vero che bisogna chiedersi da dove sono piovuti gli oltre diciassettemila voti ottenuti alle elezioni regionali del 2017 da Genovese junior.

E c’è anche il “leghista” Tony Rizzotto, autore (ironia della sorte) della canzone “Siamo meridionali” (un inno orgoglioso all’appartenenza sudista uscito negli anni Ottanta), il quale, secondo L’Espresso, “si è fatto le ossa con l’ex governatore Totò Cuffaro condannato per favoreggiamento alla mafia”, con un “salto di qualità” che “avviene da deputato all’Ars col Movimento per l’autonomia di Raffaele Lombardo, il successore di Cuffaro, anch’egli finito nei guai per voto di scambio”.

Insomma, su quattro firmatari contro Borrometi, tre hanno curriculum di questo genere. Nomi credibili (ironico anche questo) per una vicenda incredibile.

Nella foto: il giornalista Paolo Borrometi

Luciano Mirone