C’è stato un tempo in cui l’essere umano era dominato dalla natura. Doveva difendersi dal freddo, dalla fame, dalle belve feroci, dai terremoti, dalle malattie. Eppure al contrario di altre specie animali estintesi nel corso dei millenni, egli è riuscito a sopravvivere, creando con la natura un rapporto di odio, ma anche di rispetto e di amore.

È sopravvissuto alle guerre, causate dalla bramosia di potere e dall’esigenza di accrescere il dominio e il benessere mediante il saccheggio del popolo conquistato. E fino a un certo punto ha combattuto ferocemente con le armi fornite dalla natura, le mani, le unghia, le pietre, il legno, il ferro, il rame. Si è dato delle leggi morali legate alla sua imperfezione, delle leggi scritte che non hanno eliminato le disuguaglianze, le soverchierie, i confitti, i ladrocini, i tradimenti, i delitti.

Poi è arrivato il momento in cui tutto è stato sovvertito. È successo quando l’uomo ha acuito le sue aberrazioni, cioè quando due nuovi elementi hanno fatto la loro comparsa nella sua storia: il capitalismo e la tecnologia. Due categorie che non vanno demonizzate a prescindere, poiché hanno creato ricchezza, progresso e benessere, ma a una condizione: non devono essere accompagnate dall’aggettivo “selvaggio”.

Nel nostro Paese ci sono stati industriali illuminati che hanno cercato di umanizzare le macchine. Adriano Olivetti è stato uno di questi. Che al centro della sua produzione – con il suo democratico modo di dialogare e di riservare spazi agli operai, come le strutture per lo sport, per il tempo libero, per i bambini – ha messo l’uomo, riuscendo sempre a creare ricchezza e a rompere il luogo comune secondo il quale il capitalismo sopprime l’umanità. Olivetti ha rivoluzionato questo concetto, ma purtroppo il suo esempio è stato poco seguito, sia in Italia che nel resto del mondo.

Adriano Olivetti. Sopra: una scena della civiltà contadina

Ed è questo (quando mi pongono la domanda, meglio-oggi-o-meglio-una-volta?) che mi porta a dire che il passato è nettamente migliore del presente, laddove per “passato” intendiamo una categoria della storia identificabile con la civiltà contadina, mentre per “presente” quella dell’oggi che identifichiamo col capitalismo selvaggio.

Una cosa difficile da spiegare, specie quando ti obiettano che evidentemente-non-sai-cos’è-la-fame. E hanno ragione. E confesso pure che se non fosse per certe dinamiche, non avrei esitazioni nel dire “oggi”, ma siccome quelle dinamiche mi piace esplorarle fino in fondo, dico decisamente “ieri”.

Prendiamo l’esempio della Grande guerra, quando si scoprì che un conflitto – oltre ad assoggettare il nemico – può generare nuova ricchezza attraverso l’industria bellica. Poi la perversione proseguì con la Seconda guerra, quando la produzione di armi aumentò a dismisura e degenerò con un altro fenomeno terribile entrato prepotentemente nella nostra vita: la bomba atomica. Con la quale si lanciò un monito: dopo Hiroshima e Nagasaki si potrà annientare l’umanità. A quel punto – invece di lavorare per la pace – molti Stati lavorarono per la “bomba”. Ognuno dichiarando di possederla come deterrente di difesa per eventuali attacchi. Fu quello il momento supremo in cui la tecnologia superò la linea di demarcazione fra bene e male.

La bomba atomica lanciata su Hiroshima e Nagasaki. Sopra: una scena di civiltà contadina

Fra gli anni Cinquanta e Sessanta – dopo una guerra devastante – pensavamo di essere all’inizio del “nuovo giorno”. Le condizioni c’erano tutte. L’industrializzazione, le automobili, gli elettrodomestici, le macchine per la campagna, per le fabbriche, per le opere pubbliche, assieme alla voglia di ricominciare, rappresentarono una grande rivoluzione per l’umanità. Fu una tragica illusione.

Nel frattempo l’economia prendeva il sopravvento sulla politica, che invece di regolare certe follie, permise le industrie inquinanti, il disboscamento della foresta amazzonica, le opere inutili, l’arricchimento delle mafie e dell’imprenditoria corrotta, la cementificazione delle coste, delle campagne e delle città.

È-il-prezzo-da-pagare-al-progresso, si disse, e si continuò con la fatidica frase meglio-morire-di-cancro-che-morire-di-fame, pronunciata ancor oggi in certi posti un tempo bellissimi, dove invece di coltivare i mandorli hanno deciso di coltivare le ciminiere dei poli petrolchimici che causano le più alte mortalità per tumori di tutta Europa, a dispetto di Pasolini che cercava disperatamente di spiegare che il progresso è una fabbrica che non inquina, lo sviluppo una fabbrica che inquina. Progresso e sviluppo non sono la stessa cosa. Il progresso è quello di Olivetti, lo sviluppo quello dal quale si traggono profitti spaventosi calpestando la vita.

Augusta. Le ciminiere del polo petrolchimico

Poi si è andati ancora oltre. È successo quando abbiamo scoperto che la terra può servire per sotterrare i rifiuti radioattivi anche a costo di triplicare i decessi per tumore e per leucemia; i bambini possono essere utilizzati per il commercio di organi umani, i giovani per il traffico di droga, i bombardamenti e le guerre per il dominio sul petrolio, certe isole del Pacifico per testare la potenza nucleare di uno Stato.

E nel frattempo non ci siamo accorti che sono stati stravolti gli stessi concetti di ricchezza e di povertà, privati entrambi della parola dignità. Oggi la ricchezza si chiama opulenza, la povertà si chiama miseria. Anche in questo caso bisogna cogliere le differenze. Sono categorie completamente differenti.

Il simbolo più rappresentativo di questo nuovo modello capitalistico è il presidente degli Stati Uniti – non solo l’ultimo –  eletto grazie ai petrolieri e ai fabbricanti di armi, che bombarda donne e bambini fabbricando prove false su un dittatore, e si permette di strappare il protocollo di Parigi sul clima, facendosi beffa degli scienziati che da trent’anni dicono che l’apocalisse non arriverà da Dio ma dagli uomini.

Ecco perché quando qualcuno chiede, meglio-oggi-o-meglio­-un-tempo?, non ho esitazione a dare la risposta. Non per nostalgia per un passato che non ho vissuto, ma per la paura di un futuro che temo di non vivere e che temo non vivranno – o vivranno molto male –i nostri figli.

Basta vedere come la terra si sta sciogliendo sotto i nostri occhi. Ecco allora che sovviene la fatidica frase che Leonardo Sciascia ha voluto che venisse impressa sulla sua tomba: “Ce ne ricorderemo, di questo pianeta”.

Ce ne ricorderemo. O forse se ne ricorderanno i sopravvissuti, perché siamo quasi al punto di non ritorno, col clima che è diventata la prima emergenza planetaria, legata a un capitalismo malato che crede di essersi sostituito a Dio. Lo dicono il Papa e pochi altri. Ce lo insegna una ragazzina svedese di sedici anni. Dobbiamo lottare per umanizzare questo capitalismo orrendo. Ma fino a quando non cambierà niente, consentitemi almeno di dire, di urlare, che si stava meglio quando si stava peggio.

Luciano Mirone