Sono arrivate nel corso degli ultimi anni plurime dichiarazioni di collaboratori di giustizia, a testimoniare che Attilio Manca non fosse morto per una dose sbagliata di eroina ma fosse vittima di un omicidio di mafia. I familiari di Attilio Manca si sono dunque rivolti alla procura distrettuale antimafia di Roma nell’aprile 2015, la quale ha aperto un nuovo procedimento ora in fase di attesa del pronunciamento del GIP, dopo la recente richiesta di archiviazione.
Il primo pentito che ebbe a parlare dell’omicidio di Attilio Manca fu il casalese Giuseppe Setola, il quale riferì ai magistrati di aver appreso in carcere dal boss barcellonese Giuseppe Gullotti che il giovane medico era stato assassinato dalla mafia dopo che era stato coinvolto nelle cure all’allora latitante Bernardo Provenzano.

Bernardo Provenzano

Fu poi il turno del pentito bagherese Stefano Lo Verso, che, nel corso del suo esame davanti alla corte di assise di Caltanissetta nel processo Borsellino quater, parlando delle cure a Bernardo Provenzano per il tumore alla prostata dell’allora latitante corleonese, fece riferimento a una statuetta che egli aveva ricevuto dal boss corleonese e che, per la sua provenienza, poteva aiutare a fare luce sull’assassinio di Attilio Manca.
Dopo di lui, fu la volta del collaboratore di giustizia barcellonese Carmelo D’Amico. Quest’ultimo era il leader del gruppo di fuoco della famiglia barcellonese di cosa nostra. Ha confessato decine di omicidi sui quali l’autorità giudiziaria non era mai riuscita a fare luce e ha rivelato i dettagli a lui noti di altre decine e decine di omicidi del tutto sconosciuti agli inquirenti. Sulle sue dichiarazioni, sempre riscontrate, si sono fondate le ordinanze di custodia cautelare denominate Gotha 6 e Gotha 7, emesse dal GIP di Messina, per numerosi omicidi, associazione mafiosa, estorsioni e altro. Egli ha deposto anche nel processo sulla trattativa Stato-mafia davanti alla corte di assise di Palermo. Le sue dichiarazioni sono finora sempre state valutate come altamente attendibili da tutti i giudici che se ne sono occupati. D’Amico, sentito dalla direzione distrettuale antimafia di Messina sul conto di Rosario Pio Cattafi, ha dichiarato che Attilio Manca è stato assassinato dopo che, per interessamento di Cattafi e di un generale legato al circolo barcellonese Corda Fratres, era stato coinvolto nelle cure dell’allora latitante Provenzano. Manca era stato poi assassinato, con la subdola messinscena della morte per overdose, da esponenti dei servizi segreti e in particolare da un killer operante per conto di apparati deviati, le cui caratteristiche erano la mostruosità dell’aspetto e la provenienza calabrese.

Carmelo D’Amico

A questo soggetto è stato poi, ove occorresse, dato un nome dal collaboratore di giustizia calabrese Antonino Lo Giudice, il quale ha spiegato ai magistrati di aver appreso dall’ex poliziotto Giovanni Aiello che costui si era occupato, insieme ad altri delitti, anche dell’uccisione dell’urologo barcellonese Attilio Manca su incarico di tale «avvocato Potaffio», facilmente identificabile in Rosario Pio Cattafi.
Com’è noto, il nome di Aiello è legato ai più grossi delitti siciliani degli anni Ottanta e Novanta. L’ex poliziotto, già in servizio alla squadra mobile di Palermo fino al 1977 e poi ufficialmente posto in quiescenza per motivi fisici, è stato accusato da innumerevoli collaboratori di giustizia di essere stato un vero e proprio killer di Stato, al servizio di apparati deviati e di organizzazioni mafiose palermitane, catanesi e calabresi. Sulla sua appartenenza al mondo dei servizi segreti, è stato lo stesso Aiello a fornire conferma nel corso di alcune conversazioni intercettate dall’autorità giudiziaria. Aiello è deceduto per un improvviso infarto sulla spiaggia di Montauro, nei pressi di Catanzaro, il 21 agosto 2017, mentre era indagato dalla direzione distrettuale antimafia di Reggio Calabria nel procedimento «’Ndrangheta stragista», nel quale poche settimane prima, in quanto individuato come personaggio legato a Bruno Contrada e all’ex poliziotto Guido Paolilli, era stato sottoposto a perquisizione personale e domiciliare. Al momento della morte Aiello era indagato, insieme ai boss palermitani Antonino Madonia e Gaetano Scotto per il duplice omicidio del poliziotto Antonino Agostino e della moglie Ida Castelluccio. In quel procedimento, da un anno avocato dalla procura generale di Palermo e in attesa della conclusione delle indagini preliminari, egli era indagato anche per concorso esterno in associazione mafiosa. Di Aiello si era dovuta occupare anche la procura distrettuale antimafia di Caltanissetta, per il suo ipotizzato coinvolgimento, secondo numerosi collaboratori di giustizia, nella strage di Capaci, in quella di via D’Amelio e nell’attentato a Giovanni Falcone all’Addaura nel 1989. In quella sede, nel 2011 la procura di Caltanissetta propose richiesta di archiviazione, arrivando a destituire di fondamento la tesi formulata dai pentiti Vito Lo Forte e Francesco Marullo, secondo i quali andava individuato in Giovanni Aiello l’ex poliziotto identificato con la locuzione «faccia da mostro», assassino per conto di mafia e servizi segreti deviati, del quale per primo aveva parlato nelle confidenze rese al colonnello Michele Riccio il mafioso nisseno Luigi Ilardo, ucciso a Catania il 10 maggio 1996, per effetto di una fuga di notizie dagli uffici giudiziari di Caltanissetta, pochi giorni prima di essere sottoposto a protezione da collaboratore di giustizia e otto giorni dopo essere stato sentito alla sede del ROS di Roma dall’allora procuratore distrettuale di Caltanissetta, Giovanni Tinebra, dall’allora procuratore distrettuale di Palermo, Giancarlo Caselli, e dall’allora sostituto procuratore di Palermo, Teresa Principato. Tuttavia, nel procedimento a carico di Aiello, il GIP di Caltanissetta David Salvucci con il decreto di archiviazione del 2012 (nel quale rilevò che non era sufficientemente chiaro il ruolo esecutivo in quei delitti assegnato ad Aiello) attestò che indubitabilmente era proprio Giovanni Aiello quel «faccia da mostro» indicato dai pentiti Lo Forte e Marullo. C’è, quindi, un pronunciamento giurisdizionale che ha acclarato, al di là di ogni dubbio, il coinvolgimento di Aiello come killer al servizio di mafia e apparati deviati dello Stato del quale hanno parlato innumerevoli collaboratori di giustizia (Lo Forte, Marullo, Vito Galatolo, Giovanna Galatolo, Giuseppe Maria Di Giacomo, Antonino Lo Giudice, Consolato Villani, oltre al già citato Luigi Ilardo).

Giovanni Aiello, detto Faccia da mostro

Sempre sull’omicidio di Attilio Manca sono infine arrivate le dichiarazioni, rese a uno dei legali della famiglia Manca, del collaboratore di giustizia barcellonese Giuseppe Campo, il quale addirittura ha rivelato di essere stato contattato per l’uccisione di un medico barcellonese, prima di apprendere che la mafia del territorio aveva poi operato diversamente, uccidendo l’urologo nella propria abitazione a Viterbo e simulando una morte per overdose.

  1. Conclusioni

È evidente come la vicenda della morte di Attilio Manca segni un vero e proprio fallimento nell’accertamento della verità dato che, dopo 14 anni, vi sono ancora troppi interrogativi aperti.
Questa situazione non si sarebbe creata se tutti gli uffici giurisdizionali e i soggetti coinvolti a vario titolo, proprio in veste delle loro professionalità, avessero fatto fino in fondo il loro dovere, svolgendo sin da subito gli accertamenti necessari. Invece, purtroppo, la serie di omissioni davvero ingiustificabili per quantità e per qualità, le negligenze compiute anche negli accertamenti medico-legali dai professionisti che se ne sono resi responsabili e il fatto che la locale procura della Repubblica li abbia fiduciariamente scelti e non abbia mai contestato nulla rispetto al loro gravemente inappropriato operato, hanno di fatto prodotto un quadro frammentario che sarà sempre più difficile ricostruire.
A oggi, dal punto di vista giudiziario, si dovrà attendere che il GIP di Roma si pronunci sulla richiesta di archiviazione avanzata dalla direzione distrettuale antimafia di Roma sull’omicidio di Attilio Manca, la quale era stata investita su sollecitazione dei legali di fiducia della famiglia Manca, con un esposto dell’aprile 2015, proprio in ragione delle numerose implicazioni che potevano scaturire sia dalle dichiarazioni dei collaboratori di giustizia sopra citati, sia dal contesto mafioso di Barcellona Pozzo di Gotto, intessuto di legami con l’asse Provenzano-Santapaola (è nota, peraltro, la scelta di Terme Vigliatore, comune in provincia di Messina, come luogo di latitanza da parte di Benedetto Santapaola).
Questa Commissione ha avuto il merito di essersi occupata per la prima volta del caso della morte di Attilio Manca e di aver provveduto ad analizzare da un ulteriore punto di vista i fascicoli e le risultanze fornite dagli uffici giurisdizionali investiti del caso, in particolare grazie alla trasmissione degli atti da parte dalla procura della Repubblica di Viterbo. Tuttavia l’operato di codesta Commissione ben poteva continuare con l’espletamento di ulteriori audizioni e con l’acquisizione di documenti utili all’approfondimento del caso, che si auspica verranno portati avanti nella prossima legislatura.
Tali attesi approfondimenti, utilizzando i poteri propri di questa Commissione, vengono qui di seguito elencati:
1) audizione della dottoressa Dalila Ranalletta e del dottor Fabio Centini;
2) acquisizione di tutte le testimonianze dibattimentali rese nel procedimento penale a carico di Monica Mileti;
3) audizione dei soggetti protagonisti dell’intercettazione ambientale del 13 gennaio 2007, Vincenza Bisognano, Sebastiano Genovese e Massimo Biondo, riferita alla latitanza di Bernardo Provenzano;
4) audizione di Ugo Manca, Angelo Porcino, Renzo Mondello, Salvatore Fugazzotto, Andrea Pirri per riferire quanto a loro conoscenza sui fatti e sulle persone a vario titolo coinvolte;
5) acquisizione dei tabulati del secondo cellulare di Attilio Manca, del cellulare di Gioacchino e di Gianluca Manca nel periodo compreso tra ottobre 2003 e il 12 febbraio 2004;
6) accertamento, mediante audizione del dottor Antonio Rizzotto, sulle modalità con cui questi ebbe notizia che la causa della morte di Attilio Manca fosse riconducibile ad un aneurisma cerebrale e informò lo zio del defunto, Gaetano Manca, della suddetta causa;
7) accertamento dell’identità del personale «non autorizzato» presente all’autopsia di Attilio Manca eseguita dalla dottoressa Dalila Ranalletta e audizione di questo;
8) audizione del personale appartenente alle forze di Polizia presente sulla scena del crimine il 12 febbraio 2004 e del medico del 118 intervenuto per primo sul posto, dottor Giovan Battista Gliozzi;
9) accertamento, mediante quesito a un consulente tecnico, sulla durata delle impronte rinvenute nella casa di Attilio Manca, con particolare riferimento a quella di Ugo Manca rinvenuta nel bagno;
10) accertamento, mediante quesito a un consulente tecnico, se le impronte possano essere svanite sui reperti pur sigillati con il trascorrere del tempo o se il risultato delle analisi svolte al riguardo è significativo del fatto che mai altra impronta su quei reperti sia mai stata apposta;
11) individuazione e audizione di quei collaboratori di giustizia vicini a Bernardo Provenzano e arrestati dopo il 12 febbraio 2004 (per esempio Francesco Campanella); audizione di quei collaboratori di giustizia che hanno contribuito a gestire la latitanza di Bernardo Provenzano, arrestati prima del 12 febbraio 2004.

Quel che rimane come giudizio politico, oltre alla stigmatizzazione degli apparati istituzionali che si sono macchiati delle omissioni di cui si è detto, è dover per l’ennesima volta prendere atto della condizione di solitudine e di abbandono in cui troppo spesso lo Stato ha lasciato i familiari delle vittime di mafia.

Tratto dalla Relazione di minoranza della Commissione parlamentare antimafia (M5S) sul caso di Attilio Manca

3^ puntata. Fine