Una premessa doverosa: l’amore? Un fenomeno senza principi, senza tempo né spazio, per cui l’essere umano non detiene le strutture intellettive atte a definirlo. Una di quelle dimensioni che, nella sospensione di giudizio, rientra, probabilmente parigrado, tra quelle cosiddette “metafisiche”. Mille definizioni possibili, disparate, come i punti di vista che lo caratterizzano, e, parimenti nessuna. Tutte esatte, tutte errate. E soprattutto, tutte connesse a una sorta di relativismo degli effetti. In altre parole, l’effetto subito dalle scottature dei suoi tentacoli è, nel bene e nel male, la farina da cui lievita la vario- pinta opinione terrena sulle connotazioni dell’amore.

In questo breve saggio, intitolato con consapevole irragionevolezza Semantica di un sentimento. Viaggio nelle terre dell’amore, si tenterà di circoscrivere una soggettiva, probabilmente opinabile, definizione di una galassia talmente ampia e del tutto ignota di cui l’unica certezza, spesso, è la tangibile mutilazione dell’anima.

Amare, azzardando una provocazione, è mutilarsi.

Cos’è l’amore? Inizierei a definirlo come una sorta di perenne castigo divino al pari delle piaghe bibliche da cui il genere umano non potrà mai trovare sollievo.

Parrebbe, questa, una verità urlata sommessamente, nel suo stile elegante, mondano e tagliente, da Tony Servillo, lo Jep Gambardella della sorrentiniana Grande Bellezza, l’archetipo per eccellenza della raffinata decadenza del nostro Belpaese, il riepilogo della devastazione etica e psichica, amplificata dall’illecito esistenziale, che crea l’amore e i suoi traumi. Parrebbe, questa, l’accusa mossa nel processo che vede alla sbarra la Passione dopo aver devastato il teatro della vita.

Forse la stesura di questo breve saggio vuole essere anche questo: ovvero un’introspezione sulle cause del disastro; un’indagine velleitaria su ciò che indagabile non è; la risposta al perché dell’inaccettabile sofferenza comparabile alla decima piaga biblica: la morte dei primogeniti. Perché l’amore, che inizialmente corrompe sotto le sembianze di un Venditore dell’unico Senso della Vita, scarnifica, addolora spaventosamente e lascia denudati di tutto. Sì, nudi! Con un’arma in mano. Da rivolgere verso se stessi. Dinanzi? La steppa, il nulla. L’azzeramento di ogni possibilità di sopravvivenza.

In altre parole, l’amore uccide! Senza pietà alcuna.

Le sue conseguenze nefaste non implicano la raccolta dei cocci. Muore chi debba raccoglierli.

L’amore. Un motore che muove tutto l’universo che ha, al tempo stesso, la capacità di immobilizzarlo. Crea e distrugge. Illumina e spegne.

E più intenso è stato il bagliore, dopo una longeva irradiazione, più fitte caleranno le tenebre. Questo vale non solo per l’amor proprio offeso, tradito, abbandonato. O per l’amore tormentato. Vale anche per quello generoso e, oltre ogni limite, ricambiato, quando certi addii non vengono dal cuore, ma scaturiscono dal rannuvolamento del cielo amo- roso sull’inflessibile giardino della ragione, su cui, tra l’altro, amoreggiano sdraiati due complici interlocutori: la Gelosia e l’orgoglio.

Cos’è l’amore? Onestamente non saprei. Stordito tra la cinica ma veritiera filosofia di Jep, in quello zavorrante bla bla che condisce l’esistenza affogando l’anima nel pantano della mediocrità poco prima del trionfo della morte, e col ronzio di un pugno di mosche tra le mani, giunge in soccorso una fotografia. Un’immagine, in verità, che sgomitola nei meandri del pensiero, sempre e comunque, come amazzone portavoce di un cupido moribondo.

Arriva in soccorso dunque un idillio “disegnato” dall’inchiostro di un romanziere. Non uno sprovveduto… uno degli indagatori più scrupolosi degli abissi dell’esistenza: Victor Hugo, il padre della letteratura francese. Ne I Miserabili, disarmante compendio sull’oscurità del mondo, sentenzia:

Ho incontrato per via un giovane poverissimo: era innamorato. Il suo cappello era vecchio, l’abito logoro, con i buchi ai gomiti, l’acqua gli passava attraverso le scarpe e gli astri attraverso l’anima.

Queste righe nobilitano quel demonio di sentimento, l’amore, an- che quando d’ignobile rimane la sua nefasta conseguenza. perché se è vero che l’essenza del cuore può sopravvivere alla povertà materiale e, altresì, vero che la vaporizzazione della stessa impoverisce in egual misura. L’essenza ha la stessa forza, in negativo, dell’assenza. Benigna e matrigna, come la natura. È nel vuoto dell’anima, cui l’animale passionale è destinato a infrangersi dopo l’illusione delle illusioni, che l’amore, in un’ultima e disperata reazione, si cinge di decenza, si cosparge di dignità. Resiste, avvinghiato alla vita, alle cateratte sottostanti del fiume dell’oblio. Non cede alle tentazioni dell’indifferenza. Che spesso è solo apparenza. Reagisce e si aggrappa alle condotte della memoria.

L’amore vuole essere commemorato. Celebrato. Rievocato. Cos’è l’amore, dunque? È, anche, sopravvivere al castigo!

Parafrasando il fotografo Mario Carnicelli, forse è, come per la politica di un tempo, sopravvivere, esserci, restare in piedi, resistere e testimoniare con la propria storia una storia più grande. E sì! Forse è anche questo! L’amore è nient’altro che la condizione del sopravvissuto per fare testimonianza di una cosa, una cosa più grande di noi.

Credere in un’emozione perenne! Credere in un essere perennemente! Toccare il sentimento autentico. Vivere una passione incontenibile, costante, infiammante. Percepire l’altro come sogno, dono inaspettato, immeritato, fantastico. Trasportare in ogni attimo del vissuto l’immagine di un abbraccio, di una circostanza vissuta, di un bacio. Chiamare ogni istante della fugacità con lo stesso nome. Trasferire il profumo dell’amore su quelli della natura. Respirare questo essere, la sua essenza in ogni dove. Viverlo laddove osano le aquile. Rompere l’atavica triade, passato, presente, futuro, diluendola in un’unica e prolungata attesa. Spingere il desiderio alle estreme realizzazioni. incorniciare tutto il firmamento, i mondi lontani e le galassie sperdute nell’inamovibile pensiero dell’altro. Soffocare repentinamente ogni altra emozione del mondo nel vaso del disinteresse, coniando, in relazione al tutto, l’espressione: vali solo tu. RaggiungerLa sempre. Fisicamente. E quando non è possibile teletrasportarsi con il pensiero. Incardinare la vita sull’amore. E ancora non basta! Non soddisfa! Nulla si spegne. E sempre un attizzare. Divorare. Come fiamma indomabile. Fuoco che piove dal cielo, dalla terra, dai sensi, dal cuore, dalle origini primordiali del cosmo. Bruciarsi e rilanciarsi sempre in quei tizzoni ardenti. Insieme. Desiderio e condanna.

È andata così. Finirà così. nessuno si tira indietro. Sempre mia, tesoro! Sempre!

L’amore, stremato, scampato all’apocalisse, è, vuole essere, testimonianza di questo intenso grido di gioia mista a dolore. E anche questa è la vita.

Questa dilettosa scrittura è una via crucis nelle stazioni dell’inganno e del cordiale disinganno; un viaggio nella Geografia dell’amore in compagnia di guide esperte, i Sentimenti personificati, che fiutano sempre le traiettorie più agibili aprendo varchi nella fitta sterpaglia del romanticismo. Il tempio della tenerezza, ben mimetizzato con la vegetazione, si erge nel segno del Mito, della Letteratura, del Tormento, della Lussuria e del Trionfo, satelliti medicei che orbitano attorno a un Giove innamorato cui rimangono legati dal sottile gioco di forza delle attrazioni.

In definitiva, non è lo scrittore che decide di prestare ascolto alla voce dell’anima, scortata dalla fantasia, ma è l’anima che, sepolta dalle macerie della vita, umiliata dalla passione, urla il suo dolore pretendendo soccorso. S’impone, nella contingenza storica del momento, per mostrare non solo i segni della violenza ma, al contempo, la bellezza in tutte le sue variabili: quella dell’amore, quella del ricordo e, soprattutto, la sua che, nello spazio e nel tempo, da nulla può essere scalfita. L’anima, umile, invisibile e disgraziata, nella crescente mummificazione spirituale dei tempi, continua a cogliere il dettaglio, la sfumatura, l’impercettibile e, soprattutto, come un test olfattivo di laboratorio sulle fragranze, distingue quell’unica essenza dell’amore tra gli odori del mondo e le nebbie della memoria.

Soltanto l’anima, bendata dagli scettici, a stretto contatto con le labbra della Vita, riuscirebbe a identificare il soggetto che le procura pena e vuoto.

L’anima! Stuprata nel silenzio delle vicissitudini quotidiane, seviziata dall’incomunicabilità, bruciata viva dalle ferree logiche di una ragione che di razionale non ha nulla se non il suo imbarazzante conformarsi a falsi precetti morali, è sempre pronta a porgere la mano nei momenti di difficoltà; si erge, grazie all’esercizio della me- moria, a riparo momentaneo quando imperversa la tormenta; si apre come paracadute salvavita quando si cade da alture considerevoli.

Semplicemente: raccontare l’esperienza di un viaggio è salvarsi.

Sullo sfondo di questa decadenza spirituale da addurre alle futili motivazioni della ragione, si erge in tutta la sua magnificenza, come colonna antica, la potenza della parola, esclusiva e legittima porta- voce del cuore.

Cornice d’eccezione è il “salotto d’avanguardia parigina”, rappresentato dal corredo di tele della pittrice Valeria Ingrassia – artista e docente siciliana – disseminate nell’opera, e che fungere da affasci- nante sfondo, luogo di ristoro dei sensi, nella rue de Fleurs dell’amore. Una dimensione seducente, una sorta di Montparnasse parigina del primo ’900, erotica, senza regola e gravida di genio, che accompagna questo viaggio con le atmosfere seducenti di nudi surreali. Muse che s’incarnano in una giunonica visione, consumata tra le dimore eterne dell’infinita, smisurata e potente passione, quella niente cappello, niente scarpe, niente mutande. Con esse si accompagna il ritratto della Bellezza senza tempo, opulenta, aristocratica, filiforme, elegante, creativa, dannatamente seducente: Grace Kelly, Christa Paffgen, nota come Nico, Frida Kahlo, Maria Casares, Charlize Theron.

Emblema di un variegato politeismo dell’avvenenza, si ergono a protagoniste di un romanzo d’amore senza tempo né trama, amalgamato dal leitmotiv della sensualità esaltata a pericolosa invenzione dell’amore e, al contempo, motivo di malinconia.

Il mondo di Valeria è il riflesso di una psiche inquieta, testimone di una guerra “civile” che la divora al suo interno. Il campo di battaglia, di fatto, si staglia lungo l’immenso e insanguinato perimetro della sua anima, teatro di atrocità inenarrabili, in cui la sua idealità senza confini, prigioniera di uno spleen limitante che trova nell’arte e nella sua applicazione una fonte di riparo e di conforto, combatte contro l’invisibile fantasma del mal du vivre.

I suoi nudi, riflesso di una sessualità inconscia e rigida, che rimanda per contenuto ai lavori di Egon Schiele, primeggiano su un’oscurità quasi caravaggesca rotta dalla luminosità di ritagli femminili che urlano disagio e si consolano, anonime, nell’alcova dei sensi.

Valeria è la Kiki del III millennio che non vive il suo tempo perché non è del suo tempo. Quello da cui è giunta, come vecchio canuto errante che cerca la sua stirpe, attraversata la palude digitale del post villaggio globale, è venuta a riprendersela.

Si è alzato dai tavoli della Closerie des Lilas, il bistrot degli artisti della notte, nella città degli amori senza durata. La Parigi tra le due guerre.

Questo manoscritto è, in definitiva, una sorta di attestato finale rilasciato al termine di un corso di apprendimento dei meccanismi dell’incomprensione umana vissuto sulla propria pelle. È la summa della potente e insanabile dicotomia passione incandescente/estrema frizione tra un umanoide e la donna apparsagli alla stregua di una particella di dio. È la descrizione dell’avaria di una macchina costruita in maniera perfetta, che ha circumnavigato mille orizzonti, e che si è inabissata per sopraggiunta cecità dei piloti.

In fatto d’amore, inno di libertà che rifiuta pregiudizi, cautele, classificazioni, barriere, tabù, l’uomo, purtroppo, non riesce correttamente a leggere le giuste note su un pentagramma che si mostra universale; rallenta o accelera i tempi d’esecuzione mortificando la sinfonia; trasforma i virtuosismi in stonature. E soprattutto, preferisce accompagnare i diletti della passione con una marcia funebre dal pessimo arrangiamento.

A guidare il vascello di questo viaggio è un protagonista d’eccezione: un cecchino.

Il profilo psicologico del cecchino è condizionato da tre elementi imprescindibili: mimetizzazione, concentrazione, cinismo. Appollaiato tra distruzione e pericolo, sorretto da una visione del mondo vo- tata al male e al sacrificio – il suo – in nome dell’amor di patria, rimane immobile per lungo tempo a scrutare il più arcano dei movimenti che possa rappresentare un pericoloso obiettivo da eliminare. La sua lunga osservazione rivolta a un orizzonte di macerie lo nutre di un pessimismo cosmico che lo rende, pari tempo, sempre più diffidente e isolato. Questo prototipo umano è oleato – per finire – da una buona dose di cinismo che anestetizza ogni pseudo forma di sentimentalismo. Ciò che si muove in quel reticolo, un’entità quasi trascendente che risparmia o toglie la vita, è semplicemente, in mezzo alla devastazione, un essere minaccioso. Come nel palcoscenico della vita, del resto. Il diffidare è diventato la prima regola che muove tutte le dinamiche relazionali. Il sospetto la seconda. La chiusura a possibili aperture relazionali di varia natura, la terza. Tutti cecchini e tutti bersagli. Nessuno impietosisce e nessuno merita fiducia. Il meccanismo di difesa dell’isolamento è sempre a portata di mano almeno fino a quando in quel reticolo di puntamento succede qualcosa. Qualcosa di grande.

Il cecchino, inaspettatamente, ha inquadrato Medea, (compagna di viaggio verso mete apparentemente esotiche ed emblema allo stesso tempo della donna pronta a sacrificare persino ciò che ha partorito, il se stessa fuori di lei, ciò che lei ha allevato, quando è in balia dei demoni dell’amore) rinnegando, pian piano, la sua visione delle umane cose; la scardina insieme ai richiami della coscienza, fugge dal mondo della routine quotidiana per inseguire il sogno della passione, cavalcando la corrente del Sentimento verso l’isola del paradiso. Medea ha destrutturato la sua corazza e agli occhi del nostro tiratore ha mostrato non più le rovine del vivere ma il suo incanto, soprattutto quando è legato a un filo conduttore esclusivo e indissolubile.

La Medea dei nostri tempi genera la vita e la toglie.

Questo insignificante diario di bordo, recuperato nei fondali dell’oblio, narra semplicemente di un vascello, il Titanic, impattato violentemente con il calore di un iceberg mitologico e di un comandante che, come prometeo, ha tentato – trafugato il fuoco dell’amore alle divinità – di tenerlo acceso in ogni modo possibile. La condanna? Quella di non essere legato alla roccia per essere beccato vivo dai corvi, ma essere catapultato, in eterno, in un mondo di fogli, con paesaggi, cielo e interlocutori di carta.

Alla prima sessione di meditazioni su un tema del resto abusato in lungo e in largo dall’inchiostro dell’emotività umana, segue il mio Monologo d’Amore, ampia sintesi delle riflessioni che lo precedono, messo in scena il 22 agosto 2016, nello scorcio storico di una Sicilia che non c’è più: l’affascinante scalinata della chiesa di San Luca in Galati mamertino, piccolo centro nebroideo della provincia di Messina. In quell’occasione, le turbolenze dell’amore sono state rese lievi dall’idillio musicale del maestro Calogero Giallanza, flautista di fama e della chitarrista Maria Grazia Caffarelli, artista dal pregevole talento.

Due liriche inedite della poetessa e storica dell’arte campana Daniela Mantice, Anima e Paestum, selettivo compendio di fini percezioni, tanto intime quanto imperiture, rappresentano il proemio e il sigillo all’opera, sussurrati da una voce saggia e astratta che accompagna un condiviso senso dell’esistere: l’immortalità delle ferite dell’anima, la solitudine avvertita come terapeutico rifugio, la grandezza senza tempo dell’arte, il potere evocativo della parola. I paesaggi interiori, sfondo invisibile a quelli della natura, corazzano questi ultimi d’immortalità contro l’erosione del tempo e la ciclicità della vita.

Luciano Armeli Iapichino