Per descrivere la bellezza dell’ulivo pugliese ci vorrebbe un poeta. Come fai a raccontare una pianta centenaria (i contadini parlano di alberi anche di mille anni) che ha visto passare uomini, epoche e storie, il tronco imponente, la corteccia rugosa, la chioma superba che arriva a terra? Oggi questo patrimonio dell’umanità – dieci milioni di ulivi sparsi in tutta la Puglia – rischia di scomparire o di essere ridimensionato, malgrado la tutela prevista dalla legge regionale. Il suo killer ufficiale ha un nome, Xilella, un batterio che sarebbe arrivato dal Costarica ben nascosto in una pianta di caffè. Ma sulla nocività di questo strano e volubile killer non ci sono prove (almeno sugli ulivi). Per questo la Puglia si è spaccata. Per molti la Xilella è il paravento dietro il quale si nasconde la vera malattia: il denaro.

È dal 2010 che in Puglia si nota un fenomeno strano: le foglie di diversi alberi centenari si essiccano. Da allora è scattato l’allarme: alberi estirpati, con il rischio che quel paesaggio unico al mondo rischia di essere cancellato.

Una lotta fra due culture: da un lato la produttività delle associazioni di categoria che prevede la coltivazione intensiva di un’altra specie di ulivo più resistente ed economica; dall’altro la salvaguardia del paesaggio, dell’identità, della bellezza e del turismo (volano dell’economia pugliese assieme all’agricoltura). Una lotta antica. Ma la “lotta antica” – secondo una corrente di pensiero – può essere solo apparente, perché nasconde le perversioni dell’era moderna.

“Da quando c’è la psicosi della Xilella, il costo degli uliveti è crollato. Chi vuole fare delle speculazioni può approfittare del momento. Un esempio? Nel comune di Nardò (Lecce) è previsto un insediamento turistico che ha ricevuto i visti favorevoli delle autorità competenti. Peccato che il progetto ricada in un uliveto di cinquecento anni fa. E questa non è che la punta dell’iceberg”. Il problema infatti va visto nella sua complessità.

Il professor Nicola Grasso, docente di Diritto costituzionale presso l’Università del Salento, non ha peli sulla lingua. Da anni è impegnato in mille battaglie contro l’illegalità, le mafie, la cementificazione. “Gli ulivi del Salento – dice – sono delle opere d’arte perché esprimono il senso della storia, della bellezza e della natura. È giusto lottare per tutelarli”.

Il prof. Nicola Grasso. Sopra: gli ulivi del Salento

Quando inizia questa storia?

“Il caso Xilella è delicatissimo perché si presta a numerose strumentalizzazioni. Viaggiamo su molte ipotesi e pochi dati concreti. Nel 2010, in alcune zone del Salento degli ulivi centenari (pochi in verità), hanno iniziato a mostrare dei segnali anomali di disseccamento. Non si è mai capita la causa, ma improvvisamente nel 2013 alcuni ricercatori dell’Università di Bari hanno immaginato che questo fenomeno fosse attribuibile al batterio della Xilella, noto fino a quel momento per aver distrutto le viti in California e gli agrumeti in Brasile”.

Si tratta di dati scientificamente certi?

“No. Una serie di studi condotti dall’Università di Berkeley in California hanno dimostrato che l’ulivo non viene attaccato dalla Xilella”.

E allora?

“Da quel momento si è fatta largo la tesi secondo la quale esiste un ceppo della Xilella, detto pauca, che ha la caratteristica di attaccare gli ulivi. Peccato che in questi anni non sia stata pubblicata una sola ricerca scientifica che lo dimostri inequivocabilmente, tant’è che dalle analisi effettuate si è accertato un fenomeno strano: diversi alberi secchi non hanno il batterio della Xilella, mentre alberi in buone condizioni ce l’hanno. Questo vorrà dire qualcosa”.

Cosa?

“Che si dovrebbe approfondire la ricerca. Anche perché altri studi parlano di un insieme di cause: i funghi, l’impoverimento del terreno, il calo delle difese immunitarie, l’uso massiccio di diserbanti, il cambiamento climatico”.

Qual è l’interpretazione più verosimile?

“Che in assenza di riscontri seri la Xilella rischia di diventare un alibi, perché darebbe la possibilità di chiedere degli indennizzi esorbitanti a livello europeo, e soprattutto darebbe vita a una forma di cambiamento del sistema di coltivazione, con forme speculative che stanno alla base di tutto”.

In che senso?

“Nel senso che espiantando questi ulivi monumentali (piante altissime con delle chiome difficilmente coltivabili in quanto richiederebbero operai e costi altissimi) si passerebbe all’idea di sostituirli con delle cultivar (così si chiamano) più facili da lavorare in modo intensivo. L’idea è quella di cavalcare l’onda della Xilella per ridurre i costi. Questo però comporterebbe lo stravolgimento del paesaggio, con conseguenze devastanti”.

Dunque che sta succedendo in Puglia?

“In questi giorni c’è stata una grande protesta degli agricoltori, che stanno soffrendo per delle perdite economiche notevoli: alcuni ulivi seccano e loro non sanno che fare. La richiesta che viene fatta alla politica è: autorizzateci a espiantare questi ulivi e a piantarne di nuovi”.

E quindi si stanno creando due movimenti contrapposti: uno a favore dell’espianto e un altro a favore della tutela?

“Esatto. L’adesione alla tesi più semplicistica (gli ulivi muoiono per Xilella) dà l’avvio al procedimento di espianto, chiaramente avallato dall’Unione europea. Questo incontrerebbe i desiderata di una parte delle associazioni di categoria che vedrebbero di buon occhio l’espianto di questi alberi centenari, i quali, lo ripeto, sono poco produttivi. Solo che l’Ue ha posto il divieto di reimpianto. Quindi allo stato attuale se tu espianti degli ulivi non puoi piantarne altri”.

Un paradosso.

“L’Unione europea prescrive che in una zona definita infetta debbano essere espiantati gli ulivi malati anche nei casi in cui, pur presentando il batterio della Xilella, sono apparentemente sani. C’è poi la zona di contenimento (nella fascia più a nord, in provincia di Brindisi) dove non solo l’albero infetto deve essere tagliato, ma devono essere eliminati anche quelli che si estendono nel raggio di cento metri, dai cinquecento ai seicento alberi sani. L’Ue per evitare che i nuovi alberi possano ammalarsi, vieta il reimpianto. Per questo la Coldiretti, le associazioni di categoria e gran parte della scienza ufficiale stanno tentando di individuare una cultivar resistente. Una inchiesta della procura della Repubblica di Lecce ha prefigurato un disegno”.

Un disegno?

“Sì, una volontà di modificare il tessuto paesaggistico e produttivo della zona. Un professore dell’Università di Bari è arrivato a teorizzare l’istituzione di un museo degli ulivi monumentali: dopo l’espianto di tutti gli alberi, ha detto, ne lasceremo una cinquantina, giusto per ricordare com’era il Salento fino ai primi anni del Ventunesimo secolo”.

È vero che nel Salento ci sono degli agricoltori che con metodi tradizionali hanno salvato i loro ulivi?

“Certamente. Hanno praticato determinati accorgimenti nel trattamento della pianta. I risultati sono stati straordinari. All’interno di una zona fortemente colpita hanno trattato i loro ulivi (che sorgono a distanza di pochi metri da quelli malati) con tecniche antiche che prevedono prodotti come la calce ed altro per combattere le malattie. L’uso di questi metodi ha portato ad una rinascita delle piante. La scienza ufficiale li ha bollati come santoni, ma nessuno ha dimostrato scientificamente perché in Puglia alcuni ulivi seccano. Nessuno ha mai spiegato perché la malattia non si propaga a cerchi concentrici (come sarebbe logico in caso di contagio), ma a macchia di leopardo”.

L’esempio di questi agricoltori è stato seguito da altri?

“Sì, ma si tratta di iniziative isolate. Su questo argomento non c’è una linea univoca, molti uliveti sono parcellizzati o abbandonati”.

Secondo lei quando si risolverà questo caso?

“Quando ci sarà una ricerca scientifica seria e indipendente. Il decreto ministeriale del giugno 2015, che ha recepito una direttiva europea (a mio parere violando l’articolo 33 della Costituzione, cioè la libertà di ricerca), prescrive che tutte le ricerche devono essere autorizzate dal Servizio fitosanitario nazionale o regionale. Viene vietata la movimentazione delle piante malate. Quindi se il ricercatore di Berkeley vuole fare un’indagine, deve farla in loco dopo aver chiesto l’autorizzazione alle strutture burocratiche”.

Questo cosa ha causato?

“Ha frenato fortemente l’indagine, che comunque sarebbe costata tantissimo. Di fatto la ricerca è stata monopolio quasi esclusivo di alcuni enti che operano in Puglia, che però sono stati tacciati di conflitto di interessi dalla stessa Procura di Lecce”.

Perché?

“Se sostengo una tesi in maniera non dico veemente, ma molto convinta, non posso essere l’unico organo deputato a fare le analisi. Una ricerca del genere andrebbe aperta, permettendo ad istituti nazionali e internazionali (eventualmente con l’aiuto di finanziamenti pubblici) di potere svolgere studi approfonditi. Una questione delicata come questa dovrebbe avere un ampio respiro. Le uniche pubblicazioni scientifiche che riguardano il rapporto fra ulivo e Xilella sono quelle dell’Università di Berkeley. Fino a quando questa ricerca non viene smentita siamo autorizzati a dire che l’ulivo è resistente alla Xilella”.

Che idea si è fatto di questa storia?

“Un problema serissimo come il disseccamento dell’ulivo viene strumentalizzato, cavalcato e piegato a determinati interessi. Però se lo dici (come ha fatto la Procura di Lecce) rischi di essere tacciato come complottista. Da quando si è data la colpa alla Xilella c’è stato un susseguirsi di proposte di legge, richieste di finanziamenti, polveroni e mobilitazioni in grande stile”.

Cosa dovrebbero fare le istituzioni?

“Dovrebbero preoccuparsi di più del paesaggio e dell’integrità di qualcosa che è veramente rappresentativa dell’identità culturale e storica del nostro Paese, piuttosto che consentire speculazioni, cementificazioni, stravolgimenti che non fanno altro che impoverire un Paese vecchio sotto tutti i punti di vista, ivi compresa l’esaltazione di modelli di sviluppo superati”.

Luciano Mirone