L’eterno dilemma che tormenta il siciliano che sogna di sfondare ma decide di restare, la Sicilia o Roma, il posto sicuro o il palcoscenico, il certo per l’incerto? Un dubbio amletico che ha sempre afflitto un bravissimo attore che il pubblico italiano sta imparando ad apprezzare: Mauro Maria Amato, diverse scoppiettanti performances nella serie Tv sul commissario Montalbano, ma per pochi minuti, pochi minuti per fare impazzire facebook, e per portare un sacco di gente del suo paese, Belpasso (provincia di Catania), a fermarlo in mezzo alla strada per fargli i complimenti più disparati o per chiedergli l’autografo.

Luca Zingaretti. Sopra: Mauro Maria Amato in un fotogramma della serie di Montalbano

Sono quei “pochi minuti” di conversazione con Montalbano a misurare la distanza fra l’Isola e il Continente, fra l’essere e il voler essere, fra la terraferma e il mare aperto, fra il coraggio e la paura, quei “pochi minuti” di ottima recitazione che spesso gli fanno ronzare un monosillabo vecchio quanto l’uomo: se. Se fossi andato via, se avessi avuto più coraggio, se fossi andato a Roma. Già, se

Intanto con la sua “maschera”, la sua mimica e la sua voce, Mauro Maria sta contribuendo (seppure in modo minimalista, al pari di tanti altri bravi attori della grande tradizione teatrale belpassese e catanese) agli ultimi successi del Montalbano di Camilleri interpretato da Luca Zingaretti e diretto da Alberto Sironi: il penultimo episodio, Come voleva la prassi, ha totalizzato oltre 11 milioni di telespettatori (44 per cento di share), un record assoluto nella storia della televisione italiana. Mauro ha fatto la parte di Michele Tarantino, la prima persona a scoprire il delitto di una ragazza. Un contributo piccolo ma importante.

Ma non scriviamo questo articolo solo perché Mauro Maria Amato partecipa da tempo alla serie su Montalbano. Montalbano è solo un pretesto per raccontare lo stato d’animo, il dissidio, le lacerazioni interiori del siciliano che sceglie di restare nella sua Isola non realizzando pienamente il suo sogno, perché la Sicilia, specie con gli artisti, è Terra avara, matrigna, come diceva il vecchio Alfredo (Philippe Noiret) a Totò in Nuovo cinema paradiso: “Vattinni… ca chista è terra maliditta”.

Scriviamo questo articolo perché la storia di Mauro Maria Amato è la metafora di tanti siciliani che valgono, i quali, per vicissitudini varie, decidono di restare nella loro Terra vivendo perennemente il sogno bellissimo e terribile di scappare. Scriviamo questo articolo perché conosciamo i sentimenti più intimi di questo attore, sentimenti che lui stesso con coraggio e pudore mette a nudo in questa chiacchierata, e quindi scriviamo questo articolo perché è giusto.

“Michele Tarantino – dice l’attore – è un personaggio drammatico e grottesco al tempo stesso, come tutti i personaggi che mi sono congeniali. Zingaretti ne ha plasmato il carattere insieme a me, stravolgendo il copione. Alberto Sironi, che stravede per lui, lo lascia fare. Tutto ruota attorno a Luca. Quando gli aiuto-registi lo vedono da lontano, dicono sottovoce: ‘Ragazzi, c’è Luca…’, come se Luca fosse lui il deus ex machina del set. L’episodio di Montalbano al quale ho partecipato è stato girato nella vecchia Ragusa, nella zona dell’ospedale, dove ci sono le costruzioni risalenti al periodo fascista. Un set naturale rimasto intatto: in uno di quei palazzi abbiamo realizzato la scena. È uscito fuori un dialogo di chiara marca camilleriana. Da diciotto anni Montalbano viene realizzato nel ragusano: non potete immaginare l’entusiasmo della gente e delle maestranze del posto”.

Facciamo un passo indietro. Anno 1989. Mauro Maria Amato è appena ventenne quando esordisce con Quiz di Turi Vasile, grande commediografo e produttore cinematografico siciliano (madre belpassese, padre lentinese) che ha lavorato con i “mostri sacri” del cinema italiano, Fellini, Antonioni, Tognazzi, Mastroianni, Loren e tanti altri. Mauro ci impressionò per la disinvoltura nel passare dal drammatico al comico, repertorio che non ha mai abbandonato. Merito del regista Nunzio Sambataro, che lo vide recitare negli scout e lo buttò coraggiosamente nella mischia.

“Allora scoprii il sacro fuoco del teatro. Frequentai la scuola di recitazione del Teatro Stabile di Catania assieme a bravissimi attori come Riccardo Maria Tarci, Rosario Minardi, Luana Toscano, Olivia Spigarelli, Margherita Mignemi e David Coco. Alla fine del biennio ottenni una parte ne L’Avaro con Turi Ferro. Stare a contatto con uno dei più grandi attori del teatro italiano di tutti i tempi è stata la cosa più bella della mia carriera. Ferro ha fatto un sacco di bellissime cose per il cinema e per la televisione, ma non gliene fregava niente: la sua vita era il palcoscenico”.

Turi Ferro

“Durante la tournée, nell’intervallo fra il primo e il secondo atto, si doveva sedere perché stava male, la moglie Ida Carrara (altra grande attrice) gli stava sempre vicina: gli telefonavano da ogni dove per delle interviste, lui rimaneva indifferente, era concentratissimo sull’opera che stava rappresentando. Un grande animale da palcoscenico. Ho imparato più cose in quella tournée che nel resto della mia vita artistica: mi nascondevo dietro le quinte a guardare i suoi monologhi, cercavo di rubare i trucchi del mestiere. Il figlio Guglielmo debuttava allora nella regia, era un ragazzino timido e riservato. Ricordo i dialoghi bellissimi tra lui e suo padre, gli insegnamenti che quest’ultimo dispensava al figlio: ‘Adesso vai sul palco e ringrazia il pubblico’. Una tenerezza incredibile”.

Con Iaia Forte in “Squadra antimafia 8”.

“Poi le varie tournée con il repertorio classico, da Pipino il breve all’Aria del Continente, con gli altri pilastri dello Stabile, Tuccio Musumeci, Pippo Pattavina, Mariella Lo Giudice, Miko Magistro, Ileana Rigano, Guja Lelo… il grande regista Giuseppe Di Martino”.

Poi? “Poi succede qualcosa. Nella mia vita ho avuto la sfortuna di non avere un solo binario: volevo fare questo lavoro, ma al tempo stesso sentivo l’esigenza di farmi una famiglia, un desiderio che ho appagato e di cui sono felice. Ma questo ha influito in modo determinante nella mia carriera. Sì, perché bisogna chiarire una cosa: se sei giovane e vuoi fare l’attore professionista, devi provare di mattina e di pomeriggio, devi fare un sacco di spettacoli, devi fare le lunghe tournée: una cosa difficile, specie se decidi  di mettere su famiglia. Nel frattempo mi laureai in Giurisprudenza ed ebbi la possibilità di ottenere un impiego fisso. In quel clima di incertezza, solo un pazzo poteva rifiutare. Oddio, e ora che faccio? Ho il posto! Andai a parlare della mia nuova situazione con i vertici del Teatro Stabile (allora diretto da Pippo Baudo): mi sarei aspettato una risposta rassicurante tipo: ‘Resta allo Stabile’. Accadde esattamente il contrario: ‘Non fare pazzie, sistemati, ti puoi licenziare quando vuoi’. Rimasi scioccato. Per quattro giorni non volli parlarne con nessuno, intanto ero a Roma per fare Uno sguardo dal ponte con Michele Placido. Al ritorno decisi di acchiappare al volo quella occasione, tanto, pensavo, mi potevo licenziare quando volevo. Non mi sono licenziato, le esigenze familiari non me lo hanno permesso. Se fai l’attore, o lo fai bene (con la possibilità di un guadagno certo e dignitoso) o non lo fai. Conosco grandissimi attori che in certi periodi, a stento riescono a mangiare un panino, e per campare la famiglia sono costretti a fare dei lavoretti nei pub e nei localini. La gente non riesce neanche ad immaginare i sacrifici che si sono dietro la vita di un attore”.

“Spesso vivo questa condizione con enorme frustrazione. Quando sono in sì ringrazio il momento in cui ho sposato questa scelta (sarei stato in debito verso i miei figli). Ma quando sono nei momenti di debolezza… non potete neanche immaginare che mi succede… Ma chi te l’ha fatto fare? Potevi restare da solo, saresti andato fuori, in tournée, ti saresti trasferito a Roma, la città che ami, invece sei qui. Vallo a sapere quando ho veramente ragione”.

Con Guia Jelo ne “Il tacchino” di Feydeau

“Questo dubbio amletico nessuno potrà mai fugarlo. Sicuramente avrei avuto molto dal punto di vista artistico, ma il mondo dello spettacolo è un mondo in cui puoi passare dalle stelle alle stalle in pochi mesi. L’unica cosa che mi rasserena è che ho una famiglia, una laurea, una casa, un lavoro. Non è poco”.

“Adesso sto trovando un compromesso con me stesso: rinunciare, mio malgrado, al teatro (malgrado le tante richieste) e concentrarmi sulle fiction, anche senza un agente, cosa difficilissima per un attore. A Milano, per la fiction Piloti, sono riuscito a sbaragliare la concorrenza di colleghi molto affermati. Sono partito da solo e ce l’ho fatta”.

“Il mio sogno più grande? Fare a tempo pieno ciò che amo, il teatro, il cinema e la televisione. Se garantissero una esistenza dignitosa a me a alla mia famiglia, a Roma ci andrei anche a piedi”.

Luciano Mirone