Ci sono persone che con la loro opera arricchiscono notevolmente una comunità. Nuccio Marino, a Belpasso, è fra queste. Ecco perché, oggi che non c’è più, bisogna fare memoria del contributo che ha dato a tantissime generazioni di giovani, lui che era nato negli anni Trenta del secolo scorso.

Nuccio Marino è stato il disinteressato ed entusiasta educatore di tanti ragazzi. Sia in campo universitario (dato che lavorava presso la segreteria dell’Ateneo catanese), sia in campo calcistico con la fantastica Belpassese, squadra che contribuì a fondare e che fra gli anni Sessanta e Settanta ha fatto sognare migliaia di persone.

Tanti i giovani che hanno intrapreso gli studi universitari grazie a lui. Diversi anche i meno giovani che hanno seguito i suoi consigli: “Iscriviti! Non è mai troppo tardi. Ho visto perfino sessantenni che ce l’hanno fatta”. Lo faceva sempre col sorriso sulle labbra, disinteressatamente, con quello spirito di servizio che è prerogativa di poche persone. Lo faceva con spirito sportivo anche, perché Nuccio Marino, dello sport (quello vero, quello finalizzato alla valorizzazione dei giovani), aveva una cultura straordinaria. Fu lo scopritore di tanti talenti, i quali, senza di lui, probabilmente non avrebbero calcato i campi di calcio dell’intera Sicilia, e non solo. Quella che segue è una intervista sul “miracolo Belpassese” che gli abbiamo fatto qualche anno fa.

Nuccio Marino (il penultimo da sinistra), mentre viene premiato dal deputato regionale Alfio Papale, e dai dirigenti della Nuova Belpassese, per i suoi meriti sportivi

A prescindere dalle sue competenze tecniche – che sono notevoli – la sua forza è sempre stata la signorilità e il carisma, accoppiata ad una capacità non comune di scovare e lanciare i giovani. Probabilmente senza di lui la gloriosa Belpassese non sarebbe nata. Se Pippo Motta fu il gestore del fenomeno, Nuccio Marino fu l’iniziatore. Aveva delle capacità non comuni di galvanizzare la squadra. Una volta, prima di un allenamento precampionato, assistetti ad una discussione che fece ai suoi giocatori, piuttosto demoralizzati per una sconfitta subita in Coppa Italia. Ricordo più o meno le sue parole, scandite con calma ma al tempo stesso con fermezza: “Vedo delle facce tristi. Mi chiedo perché. Per una sconfitta? Abbiamo perso… E allora? Abbiamo il tempo, la forza e la capacità di rimediare. Dimentichiamo domenica scorsa e pensiamo a domenica prossima. Lo so, siete amareggiati. Rispondete sul campo, concentratevi, cercate di avere consapevolezza dei vostri mezzi. E ora che iniziamo l’allenamento, non voglio vedere queste facce, vi voglio allegri, grintosi, spavaldi. Sì, spavaldi come non vi ho mai visti”. Così fu. La squadra scese in campo allegra, grintosa e spavalda, e quell’anno vinse alla grande il campionato di Prima categoria.

Nuccio Marino, lei è uno degli artefici del “fenomeno Belpassese”.

“Tutto nasce dalla ricerca di quei giovani che non avevano la possibilità di potere praticare il calcio per divertimento. La cosa iniziò verso il 1955”.

E lei come fece a reclutare questi ragazzi?

“Con un carissimo amico, Domenico Calvagno, andavo a cercare nei campetti, nei cortili, nelle parrocchie questi giovani. Li raggruppammo organizzando dei tornei amatoriali. A noi interessava farli giocare per vedere se c’era qualche buon elemento per formare le squadre giovanili”.

Cosa la spingeva a fare tutto ciò?

“Questi ragazzi venivano puntualmente ignorati dalla principale società del paese, il  Belpasso, che non faceva neanche i campionati giovanili”.

Questo, dunque, vi spinse a valorizzare i ragazzi. Una politica sociale oltre che sportiva.

“Esattamente”.

Come le è venuta la passione per il calcio?

“Io avevo giocato al calcio, facevo il mediano, poi subii un infortunio al ginocchio e smisi molto giovane. La passione era tanta, volevo rimanere nel mondo del calcio, e così mi misi a fare l’allenatore”.

Chi sono stati i giocatori belpassesi scoperti da lei?

“Giacinto Licciardello, Saro Barbagallo, Saro e Turi Signorello, Venero Rapisarda, Mimmo Pagliaro, Carmelo Santonocito, Nino Cavallaro, e tantissimi altri. Noi davamo la possibilità a chi voleva praticare dello sport, anche a livello amatoriale, di poterlo fare, per cui abbiamo creato diverse squadre, Giovanissimi, Allievi, Juniores”.

I genitori erano d’accordo?

“Non solo erano d’accordo, ma si fecero coinvolgere volentieri”.

La Belpassese inizialmente si chiamava Acli Belpasso.

“All’inizio non avevamo neanche i soldi per pagare una sede, le riunioni si facevano a casa mia. Man mano che si andava avanti si riusciva ad avere un certo consenso di una parte della popolazione, per cui sentimmo l’esigenza di avere una sede. A darci ospitalità furono le Acli”.

Il supporto di Pippo Motta, di Mario Morabito, e di Mario Scandurra quando arriva?

“Se non mi sbaglio arriva con l’Acli Belpasso, prima non c’era niente di ufficiale. Quando si ufficializzò il tutto anche attraverso la partecipazione a campionati federali, anche loro parteciparono a questa avventura dando un contributo determinante”.

La copertina del libro “Un sogno in biancoverde. La fantastica storia della Belpassese” (A&B Editore)

I ricordi.

“Dopo i campionati giovanili sentimmo l’esigenza di iscrivere la squadra al campionato di Terza categoria. Ma occorrevano dei soldi, anche per evitare che determinati giocatori, per questioni economiche, andassero via dalla società. Così io, Pippo Motta e Mario Scandurra ci recammo al Villaggio del Pino dall’ing. Consoli a chiedere un contributo. Lui accettò la presidenza e ci assicurò il suo interessamento”.

Quindi la squadra, in onore del suo finanziatore, si chiamò Consoli.

“Non tanto perché Consoli fosse il presidente, quanto per fare pubblicità al nuovo Villaggio. Ricordi della Consoli ne ho pochi perché successivamente andai a vivere a Catania per motivi di lavoro e lasciai la squadra nelle mani di Pippo Motta, Mario Scandurra, Mario Morabito e Concetto Giuffrida (gli ultimi due responsabili tecnici), i quali hanno fatto così bene che i risultati parlano chiaro”.

Perché fin dall’inizio i belpassesi si affezionarono a questa squadra?

“Perché partiva dai belpassesi stessi. A quei tempi nel Belpasso c’era la politica dei militari. Giocavano dei militari portati da un allenatore, anche lui militare del distretto di Catania: quando sapeva che qualcuno giocava al calcio, immediatamente lo portava a Belpasso. Il giocatore locale veniva completamente ignorato”.

Se non fosse stato per lei, la generazione dei Saro Barbagallo, dei Nino Motta, degli Orazio Prezzavento, dei Franco Nicoloso ci sarebbe stata?

“Assolutamente no. Io ho sempre pensato di dare priorità assoluta ai locali e così facendo ho scoperto un pubblico entusiasta che l’altra squadra non aveva”.

Quando scoprì questi giocatori, credeva che sarebbero arrivati a quei livelli?

“In verità credevo che qualcuno avrebbe varcato lo Stretto di Messina”.

Per esempio chi?

“Parecchi. C’erano giocatori validissimi, che però erano fortemente attaccati ai colori sociali. Ci furono parecchie richieste da parte dei grossi club, ma loro vollero rimanere nella Belpassese, nella società che avevano creato, che avevano fatto crescere, che avevano onorato con tanti bellissimi risultati”.

Alla fine di un grande campionato – in cui la sua squadra polverizzò tutti i record a livello nazionale – un giornale sportivo catanese, nel parlare della Belpassese, disse che lei era riuscito a plasmare questo gruppo di ragazzi sia dal punto di vista calcistico che umano. Il calcio va di pari passo con determinati valori?

“E’ fondamentale. Non ci può essere sport vero se non c’è un contatto umano con la gente, se non si coniuga l’impegno agonistico con quello morale”.

Per lei la Belpassese cosa ha rappresentato?

“Una esperienza esaltante”.

Cosa le rimane di quell’esperienza?

“Un grande legame affettivo”.

 

Luciano Mirone

(Tratto dal libro: “Un sogno in biancoverde. La fantastica storia della Belpassese” – A&B Editore)

 

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