A un certo punto a Maletto cala la nebbia. Le case rischiarate dai lampioni si intravedono appena, nell’aria si avverte l’aroma acre del fumo che esce dai camini. Tutto sembra sospeso su queste montagne dove la tradizione della ciaramella ha radici molto antiche. E il suono che improvvisamente si propaga nell’aria aumenta l’atmosfera un po’ antica e un po’ contadina che nei paesi più a valle si è quasi persa.

Il suono è quello di una ciaramella, lontano, flebile, aspro, al tempo stesso dolce. Seguiamo questo esile filo di musica e man mano che saliamo in cima al paese lo sentiamo più chiaro, più percettibile, più intenso, fino a quando, attraverso le stradine lastricate del centro storico, arriviamo alla Matrice che domina l’intera vallata. Bussiamo ad una porta. Entriamo. E nel soggiorno riscaldato dalla stufa a legna troviamo uno dei più grandi suonatori di ciaramella dell’intera Sicilia, Antonino Caserta, delle lenti spesse che coprono degli occhi “rimasti ‘o scuru da una decina di anni”, nel senso che non vedono più, ma di cui il ciaramellaro parla con un disincanto socratico da lasciare a bocca aperta.

Maletto, “patria” dei ciaramellari, sotto la neve. Sopra, Antonino Caserta

A lui, ogni anno, gran parte degli ottanta ciaramellari di Maletto si rivolgono per accordare lo strumento. A lui si rivolgono per avere consigli. “Vede l’orologio che ho al polso?”. Lo mostra e pigia un bottone. Una voce femminile dice: sono le ventuno e quindici. “Siccome non posso più vedere le lancette, ad indicarmi l’orario è la voce della signorina che c’è qui dentro”. Ride, ironizza e scherza, come se avesse appreso pienamente la lezione del poeta spagnolo Calderon de la Barca, la vida es sueno, la vita è sogno, anche se in questo caso sogno e suono sono praticamente la stessa cosa.

E’ sorprendente questo modo di scherzare con la vita, questo modo di interpretare i segni del destino. “Nel periodo della novena pigio spesso questo bottone. Voglio sapere che ora è. Poi dico: a quest’ora ero da Caio, a quest’altra da Tizio. Penso ai momenti esaltanti del passato, quando andavo a suonare fuori paese”. Lo dice senza retorica, senza tristezza, con un sorriso che più che uscire dalle labbra sembra sprigionarsi dall’anima.

“Cominciai a Catania all’età di dodici anni. Subito dopo scoprii Paternò e me ne innamorai. Una volta, nel periodo natalizio, c’era l’usanza di allestire gli altarini. E io venivo chiamato a suonare anche nelle abitazioni. I paternesi erano era molto bravi e ospitali, a dicembre nelle famiglie c’era un’atmosfera di festa grazie alla raccolta delle arance. Suonavo dalle 6 di mattina alle 6 dell’indomani, per nove giorni consecutivi. Si guadagnava bene. Feci questa vita per ben quarantadue anni. Poi, anni fa, un problema agli occhi causò una progressiva perdita della vista. Ma non mi persi d’animo. Restai a casa e continuai a suonare per gli amici”.

Il suo orecchio straordinario – ma anche il suo carisma – gli ha consentito di diventare il punto di riferimento di molti ciaramellari del paese. “Ogni anno, in questo periodo, vengono da me per provare. Questo è uno strumento tintu, nel senso che non tiene gli accordi, basta un piccolo sbalzo di temperatura per farli saltare. Per intonarlo è necessaria la cera d’api, dosarla nei punti giusti, toccare col coltello le sampugne, introdurre il filo di canapa nelle canne e farlo vibrare col fiato. Basta un niente per sbagliare”.

Fa una pausa e poi, colto da una improvvisa ispirazione, dice a sua moglie: “Va piglia ‘a ciaramella”. “Quali haia pigliari”. “Chilla ‘e Rometta”. Antonino Caserta possiede quattordici ciaramelle, provengono da Rometta superiore, un paesino delle montagne messinesi dove esisteva un artigiano che le costruiva, il signor Mento, morto all’età di cento anni. La moglie torna e il ciaramellaro intona una melodia. “Imparai da mio padre, il quale aveva imparato da suo padre, che probabilmente aveva appreso l’arte dai suoi avi”. Grazie a questa tradizione trasmessa di generazione in generazione, Caserta è depositario dell’antico e prezioso repertorio dei ciaramellari di Maletto.

“Una volta eravamo ottocento in paese. Ad ottobre si levava mano dal lavoro (quasi sempre dalla terra), si rispolverava lo strumento, si provavano gli accordi, si accennavano le prime melodie. Poi si partiva con la littorina per Catania, Paternò, Gravina, Augusta, Siracusa, e si tornava dopo Natale. Una vita sacrificata ma anche bella, che ti dava la possibilità di mettere da parte delle buone somme. I miei tre figli hanno voluto imparare lo strumento, ed ora anche mio nipote, la cosa mi riempie di gioia”. Signor Caserta, secondo lei fra trent’anni la tradizione durerà ancora? Fa una pausa: “Ho paura di no, ma spero di sì”. Poi tocca l’orologio, la “signorina” dice che sono le ventidue e quarantacinque. Lui sorride.

Luciano Mirone