Una morte violenta. Altro che “auto inoculazione” di eroina e alcol, come da dodici anni asseriscono i magistrati di Viterbo.

A dodici anni dalla morte di Attilio Manca, un autorevole docente universitario di Medicina legale – di cui non scriviamo il nome per motivi di riservatezza – fa la sua ricostruzione scientifica di questo caso attraverso uno studio comparato delle foto del cadavere, dei verbali di sopralluogo e delle relazioni medico-legali. L’intervistato è un professionista autorevole, che in passato ha contribuito a risolvere casi scottanti come questo.

Questa lunga intervista (di cui possediamo le registrazioni) viene messa a disposizione della Procura distrettuale antimafia di Roma e della Commissione parlamentare antimafia affinché possano affrettare i tempi per fare verità e giustizia su uno dei casi più scandalosi del dopoguerra.

Secondo il prof consultato, l’azione di morte è stata fulminea. Il giovane urologo sarebbe stato afferrato dall’assassino o dagli assassini al bicipite e al polso sinistro (nelle foto, a suo parere, si vedono due distinte ecchimosi di cui negli atti non c’è traccia, anzi, l’ecchimosi al polso, a suo dire, “è stata scambiata per il secondo segno di agopuntura”), colpito con violenza “con un pugno” al volto, o sbattuto con la faccia su una superficie dura come una porta, una parete o il pavimento (un caso il setto nasale deviato e il parquet divelto?), centrato simultaneamente ai testicoli con un calcio, una ginocchiata o un “afferramento (ipotesi più probabile, che potrebbe avergli causato uno svenimento) con la formazione di una evidente ecchimosi a stampo” (visibilissima dalla foto, ma assolutamente ignorata nelle relazioni), in cui le dita è come se avessero lasciato le loro impronte, con conseguente emorragia di sostanza ematica e di siero, che col passare delle ore potrebbe essere stata causa di un rigonfiamento.

Il giovane medico – secondo il professore – potrebbe essere morto: 1) o per il soffocamento dovuto alla costrizione violenta delle vie respiratorie contro una superficie, con successiva puntura di eroina ed alcol (una combinazione letale) praticata dai suoi assassini per simulare una morte volontaria per overdose; 2) oppure per l’effetto della stessa iniezione mentre la vittima era viva ma immobilizzata. Sia nel primo che nel secondo caso – sostiene il docente universitario – potrebbe essersi scatenato un edema polmonare con successiva emorragia, che nel referto autoptico “non sono descritti sufficientemente”.

Perché non è stato mai considerato il fatto che un mancino puro come Attilio Manca difficilmente – a meno di prove evidenti, finora mai prodotte – si sarebbe bucato nel braccio sinistro? Perché nei verbali di sopralluogo della Polizia e nei referti del Medico legale non si trova la descrizione del setto nasale deviato, delle labbra gonfie e dei testicoli pieni di ecchimosi e perché si legge che “il cadavere non presenta segni di violenza”? Perché non si è accertata una eventuale frattura allo stesso naso e la possibile causa? Perché si trova una “scarsa descrizione” dell’origine di tutto quel sangue presente sul volto, sul materasso e sul pavimento? Perché non è stato analizzato il cibo trovato nello stomaco della vittima? Perché il cadavere è stato spostato dalla posizione prona alla posizione supina in un momento in cui non è chiara la presenza del Medico legale? Perché non sono state descritte, né fotografate, le unghie delle mani, sotto le quali, secondo gli zii dell’urologo – chiamati a riconoscere il cadavere – era presente della materia nerastra, indizio molto significativo di una eventuale colluttazione? Perché nella relazione autoptica, da un lato si parla dell’esistenza di due buchi (segni che escludono assunzioni pregresse di eroina) e nell’esame tricologico presentato un anno e mezzo dopo (senza una notifica ai familiari, né all’avvocato Repici, come asserito dagli stessi) si parla di assunzione pregressa?

A dodici anni dalla morte dell’urologo siciliano, ad un anno dall’apertura dell’inchiesta da parte della Procura nazionale antimafia e ad un anno e sei mesi dall’apertura dell’indagine da parte della Commissione parlamentare antimafia, emergono dei retroscena talmente inquietanti che speriamo davvero in una svolta, specie ora che il fascicolo è passato al procuratore aggiunto della Procura distrettuale antimafia di Roma, Michele Prestipino.

Questa intervista trova dei collegamenti impressionanti con quanto dichiarato recentemente dal pentito barcellonese Carmelo D’Amico, secondo il quale il giovane urologo è stato ucciso dai servizi segreti deviati per conto della mafia, con il coinvolgimento “di un Generale dei Carabinieri vicino al circolo paramassonico barcellonese ‘Corda fratres”, perché depositario dei segreti inconfessabili che riguardano sia l’operazione di cancro alla prostata alla quale nell’autunno del 2003 il boss corleonese Bernardo Provenzano si sottopose a Marsiglia, sia i personaggi di altissimo livello che avrebbero protetto la latitanza del capomafia, soprattutto nel centro siciliano.

Le dichiarazioni di D’Amico appaiono in sintonia con quelle di altri due grossi pentiti come l’ex capo dei Casalesi Giuseppe Setola (che avrebbe appreso molti particolari in carcere dal boss barcellonese Giuseppe Gullotti, ritenuto il mandante del delitto del giornalista Beppe Alfano, nonché il consegnatario del telecomando della strage di Capaci a Giovanni Brusca) e l’ex braccio destro di Provenzano, Stefano Lo Verso.

L’intervistato non usa mezzi termini (“Questa storia è un pasticcio”), pur attribuendo alla dottoressa Dalila Ranalletta, Medico legale che ha eseguito l’esame esterno e l’autopsia sul cadavere, “una notevole caratura professionale riconosciuta in tutto l’ambiente”.

Lo spostamento del cadavere

Attilio Manca fu ritrovato morto sul letto del suo appartamento da personale dell’ospedale di Viterbo (dove quella mattina doveva effettuare un intervento chirurgico) intorno alle 11 del 12 Febbraio 2004. Stando alle fotografie, l’urologo era riverso in posizione prona, i sandali che solitamente indossava in direzione del tutto opposta dai piedi.

La Ranalletta, come detto, parla di due buchi da agopuntura al braccio sinistro – uno alla piega del gomito, l’altro al polso – ma il Medico legale intervistato da noi parla di un solo buco da siringa presente alla piega del gomito. “Il segno al polso non è stato prodotto da un ago da siringa, ma da una ecchimosi, una traccia abbastanza evidente di un afferramento”. Il volto della vittima era pieno di sangue. Due siringhe con tappo salva ago sono state ritrovate in bagno e in cucina (sulle quali gli inquirenti, per otto anni, non hanno ritenuto di ordinare il rilievo delle impronte digitali), e una temperatura dei termosifoni molto elevata.

Dopo una manciata di minuti arriva la Polizia capeggiata da Salvatore Gava, allora dirigente della Squadra mobile di Viterbo che nelle settimane successive, in un rapporto consegnato ai magistrati, scrive che mentre Provenzano era ad operarsi a Marsiglia, Attilio Manca era regolarmente a lavorare in ospedale. Notizia smentita dalla trasmissione Chi l’ha visto che, attraverso il registro delle presenze, ha dimostrato che l’urologo, proprio in quei giorni, era assente dal posto di lavoro.

Con riferimento all’arco di orario che va dalla 11 alle 11,45, la Polizia redige due verbali, e nel frattempo – senza specificare come, perché e a che ora – sposta il cadavere dalla posizione prona alla posizione supina (come si vede dalle foto). A questo punto il pasticcio – per parafrasare Carlo Emilio Gadda – diventa un “pasticciaccio”, perché non sappiamo se il Medico legale, figura che – secondo il nostro prof – “deve” sempre assistere alla rimozione di un cadavere, in quel momento è presente o meno (e ora vedremo perché).

In compenso da quel momento i magistrati di Viterbo sostengono la “morte volontaria” per overdose di eroina, alcol e tranquillante, ragione per la quale è stata messa sotto processo una donna romana, Monica Mileti, accusata di avere venduto al medico la dose letale di droga. Un processo dal quale i genitori e il fratello dell’urologo sono stati clamorosamente esclusi come parte civile, in quanto la morte di Attilio, secondo il giudice monocratico, non ha causato danni alla famiglia.

L’immobilismo della Commissione Antimafia

Ora, all’interno della Commissione parlamentare antimafia, risulta che dopo ampio e interminabile dibattito sull’origine scientifica di quel gonfiore ai testicoli, il caso Manca si sia fermato da mesi, anche in presenza di immagini che sembrano “parlare” da sole e di una serie interminabile di contraddizioni (per usare un eufemismo) presenti negli atti giudiziari.

Con tutto il rispetto per la Commissione Antimafia, non possiamo non registrare la lacunosa audizione del procuratore della Repubblica di Viterbo Alberto Pazienti e del Pm Renzo Petroselli. ai quali i commissari non hanno posto delle domande fondamentali per l’accertamento della verità, così come non possiamo non registrare il fatto che a Palazzo San Macuto si sia assolutizzato un dettaglio certamente importante come il gonfiore dei testicoli, mentre si sia tralasciata la visione di insieme, col risultato che – almeno su questo caso – si stanno perdendo mesi preziosi.

Il giallo dell’ora del decesso

Proseguiamo. C’è una contraddizione anche sull’orario del decesso, che la tesi ufficiale (specie la dottoressa Ranalletta) in un primo momento fa risalire a circa dodici ore prima, mentre in una integrazione di alcuni mesi dopo, allarga l’ipotesi temporale a quarantotto ore, quindi addirittura a due giorni prima, retrodatando tutto al 10 Febbraio e cambiando oggettivamente lo scenario della morte.

Uno scenario dentro il quale viene inserito un viaggio Viterbo-Roma (e viceversa) che il pomeriggio di quel giorno Attilio Manca ha fatto, dopo essersi sentito con tale “Salvatore”, “amico” di Barcellona Pozzo di Gotto, facente parte del giro “Corda fratres”. “Salvatore” è figlioccio di cresima di Ugo Manca (cugino di Attilio, nonché organico alla mafia barcellonese, nonché personaggio centrale in questa storia). Secondo gli inquirenti viterbesi – anche in questo caso senza prove – quel “viaggio” (da cui Attilio avrebbe fatto ritorno intorno alle 20) è servito per rifornirsi di eroina presso Monica Mileti, persona presentatagli qualche anno prima da un altro “amico” barcellonese appartenente allo stesso ambiente, del quale guarda caso fa parte un altro “amico”, che, sentito dalla Polizia dopo la morte dell’urologo, ha escluso categoricamente l’uso di eroina da parte di Attilio, salvo a smentire sé stesso quando la famiglia Manca ha cominciato a parlare di delitto di mafia. Un “pasticciaccio” anche questo, di cui i magistrati di Viterbo non solo non hanno tenuto conto, ma al quale, viceversa, hanno dato ampio credito sconfessando le testimonianze di decine di persone fra primari, colleghi di Attilio e personale paramedico, che hanno escluso l’uso di stupefacenti da parte della vittima.

Barcellona, dunque, è l’epicentro di questa storia – sia nell’ipotesi del delitto di mafia, che nell’ipotesi del decesso per droga – con Viterbo e Marsiglia punti strategici di questo strano “triangolo della morte”.

L’ultima telefonata

Ma retrodatando il decesso di due giorni viene “eliminata” indirettamente anche l’ultima telefonata che Attilio avrebbe fatto ai suoi genitori la mattina dell’11 febbraio. Una telefonata decisiva – secondo i Manca – “prima confermata e poi smentita dagli inquirenti, ma stranamente sparita dai tabulati”, perché, a loro dire, “solo una entità è in grado di cancellare una chiamata: i servizi segreti. Un particolare che ci è stato spiegato da un esperto della materia”. In quella chiamata – secondo i genitori – Attilio parlava insistentemente di Tonnarella, località di mare vicino Barcellona, dove si presume che Provenzano abbia trascorso la sua latitanza.

E però quella telefonata non si sa se c’è stata veramente o meno, i riscontri non sono stati neanche cercati. Alla luce delle recenti dichiarazioni di Carmelo D’Amico, appare peregrina? In ogni caso, o quella telefonata esiste solo nella fantasia dei Manca, oppure c’è stata davvero e sarebbe potuta risultare determinante per risalire al luogo nel quale il medico si sarebbe trovato in quel momento, e magari da lì cominciare le indagini.

È da dodici anni che i genitori ripetono a tutti (inquirenti, amici e conoscenti) sempre la stessa frase: “L’ultima telefonata di Attilio? Di mattina, verso le 9 dell’11 febbraio”. Una frase pronunciata dopo un paio di ore dall’apprendimento della notizia, un ricordo nitido, fresco, coerente.

Purtroppo non sapremo mai – a meno di clamorose rivelazioni – cosa avrebbe fatto Attilio Manca dalle 20 del 10 Febbraio (ora in cui è stato visto a Viterbo, di ritorno da Roma) alle 11 di due giorni dopo, quando è stato ritrovato cadavere a casa sua. Un “buio investigativo” di trentanove ore su cui non è stata fatta luce.

Le contraddizioni del Medico legale

Questa inchiesta a puntate si ripromette di ricostruire cosa potrebbe essere successo in quell’appartamento nei minuti che hanno preceduto la morte dell’urologo, e nelle ore successive, quando – al di là delle apparenze tranquillizzanti emerse dagli atti ufficiali – potrebbe essere successo di tutto.

A cominciare, come detto, dallo spostamento del cadavere. Che – secondo il professore intervistato – “si dovrebbe fare dopo l’arrivo del Medico legale. Se si effettua prima è perché la vittima presenta ancora dei segni di vita”.

La confusione è fitta. Non si sa, ad esempio, se la dottoressa Ranalletta è presente alle 11,45, come scrive la Polizia, o alle 14, come scrive lei stessa. Quale delle due versioni è vera? Mai chiarito. “Un fatto gravissimo”, a parere del prof, “che potrebbe pregiudicare la nullità delle indagini”.

Le “macchie ipostatiche”

Nella relazione della Ranalletta si parla di “cadavere freddo al termo tatto”, di “risoluzione della rigidità cadaverica”, di “macchie ipostatiche fisse e non improntabili”, di “cornee opache”, elementi che fanno ritenere un decesso avvenuto entro le dodici ore precedenti. E però, nello stesso documento, il nostro consulente trova un’altra contraddizione: la contemporanea descrizione delle “macchie ipostatiche” nelle parte anteriore (al volto) e nella parte posteriore (alle spalle, lato schiena), che rimettono in discussione tutto perché, a suo parere, esistono delle vistose incompatibilità con quanto illustrato precedentemente. Perché?

Le “macchie ipostatiche” si formano nelle parti “declivi” di un cadavere, in base alla sua posizione. Se il cadavere è a faccia in giù, le macchie si formano nelle zone anteriori, se è a faccia in su nelle zone posteriori. Se il decesso è avvenuto da poco, le macchie sono “mobili”, cioè tendono a spostarsi anche con una semplice pressione delle dita, a maggior ragione se il corpo viene spostato. Il fenomeno della ‘mobilità’ – aggiunge il prof – dura un paio d’ore, poi le macchie diventano definitivamente fisse. “Se nella relazione si legge che le macchie ipostatiche si trovano contemporaneamente nella parte anteriore e nella parte posteriore, vuol dire – spiega ancora l’intervistato – che quando il cadavere è stato spostato le ‘macchie ipostatiche’ erano ancora mobili”. E se erano ancora “mobili”, l’orario della morte di Attilio Manca potrebbe risalire “dalle tre alle sei ore prima del ritrovamento”. Non di più.

Uno scenario agghiacciante

Dunque qual è stato l’orario vero in cui il Medico legale è arrivato sul posto? Com’era la condizione del cadavere al momento dell’ingresso della Polizia nell’appartamento? Com’erano le “macchie ipostatiche” e la “rigidità cadaverica” nel periodo del ritrovamento?

La Ranalletta, come visto, indica le 14 come l’ora in cui “è giunta sul posto”, come scrive lei stessa. Ma qual è l’ora reale in cui ha iniziato e concluso l’ispezione cadaverica? Non c’è scritto. Quali sono i processi di cambiamento che nel frattempo potrebbe aver subito il corpo di Attilio Manca, considerando il fatto che per diverso tempo è stato esposto in un ambiente caldissimo come il suo appartamento (con i termosifoni “sparati” al massimo) “circostanza che affretta lo stato di decomposizione e quindi tende ad allontanare l’ora del decesso”? Perché la condizione dei testicoli, quando il corpo è stato adagiato sul letto dell’appartamento in posizione supina, appare normale, e il giorno dopo (13 febbraio), quando è stato adagiato sul tavolo anatomico per l’autopsia, diventa abnorme? Non lo sappiamo.

Sappiamo però che nel rapporto delle 11,45 la Squadra mobile definisce “fresco” il cadavere (volendo significare recente?), mentre alcune ore dopo la stessa dottoressa descrive un cadavere con le caratteristiche di una morte avvenuta circa dodici ore prima. Dodici ore che – come abbiamo visto – vengono allargate a quarantotto in una successiva integrazione. E però, nella stessa relazione, ci sono degli elementi – le macchie ipostatiche – dai quali si evince che i tempi tra il decesso e il ritrovamento sono notevolmente più brevi.

Ancora: dalle foto si vede chiaramente che Attilio Manca è quasi nudo (indossa soltanto una maglietta). E allora perché la Polizia scrive che il cadavere è “vestito”? Un altro pasticcio.

Che assume i contorni del “pasticciaccio” quando, il giorno dopo (13 febbraio), appare sul “Corriere di Viterbo” un articolo che parla incredibilmente di “cadavere trovato sul pavimento vicino al termosifone”. Una notizia in netta contraddizione con ciò che ufficialmente hanno raccontato le fonti investigative, che, come visto, hanno parlato di “cadavere trovato riverso sul letto in posizione prona”.

Delle tre l’una: 1) o una “fonte interna” (alla Squadra mobile o alla magistratura) ha dato questa notizia al cronista nelle ore immediatamente successive al ritrovamento: 2) o il cronista ha capito male; 3) oppure si è inventato la notizia. Se sono vere le ipotesi 2 e 3, l’articolo doveva essere smentito (cosa di cui evidentemente non ci siamo accorti). Se è vero quel che dice l’articolo, lo scenario è semplicemente agghiacciante.

1^ Puntata. Continua