Un gabbiano appollaiato sul molo di New York osserva il traffico di esseri umani che passa da Ellis Island, il luogo dal quale gli emigrati di tutto il mondo dovevano obbligatoriamente passare per mettere piede sul suolo americano. Focalizza la sua attenzione sulla Statua della libertà posta nell’isoletta vicina che oggi è sbiadita da un leggero velo di foschia, fa un leggero scatto in avanti ma non si muove da lì.

È un gabbiano pigro ma simpatico, ogni giorno le sue ali solcano un pezzetto di oceano e sorvolano le navi, i battelli e le barche che scivolano sull’acqua grigiastra del fiume Hudson; passano sul Brooklyn Bridge – il mitico ponte di fine Ottocento che collega New York a Brooklyn – e poi sul Manhattan Bridge, costruito all’inizio del secolo successivo e immortalato da film come C’era una volta in America, i palazzi di mattoni rossi, le scale di ferro e i vapori della metropolitana che sembrano sprigionarsi dalle viscere della terra.

Oggi però il gabbiano non vuole volare. È incuriosito dalle imbarcazioni in partenza e in arrivo. Gli piace osservare la gente. Di ogni razza, etnia, colore, religione, che passa da qui.

Chissà quanti altri gabbiani – il padre del padre del padre di questo, centinaia di uova fa – si sono adagiati sullo stesso trespolo e hanno osservato quei milioni di emigrati che improvvisamente, entrati nella baia di New York, si trovavano al cospetto di uno spettacolo mai visto, inimmaginabile, reso strabiliante dall’assenza della televisione, che avrebbe smorzato le emozioni delle generazioni successive. Le barche a vela, i grattacieli di Manhattan, la Statua della libertà, questa imponente e rassicurante scultura in bronzo di novantatré metri di altezza, progettata dall’artista francese Frederic Auguste Bertoldi e donata dal Paese transalpino nel 1889. Per gli emigranti, la Statua della libertà rappresentava l’inizio del “sogno americano”, la prima sensazione di trovarsi davvero in un luogo imponente e rassicurante, così diverso dal Paese che si erano lasciati alle spalle, povero, le casette fredde, a pianterreno, e riscaldate dal braciere, con i tetti di canne, il pollaio, la stalla e la fossa asettica al centro del cortile.

L’isola degli emigranti

Da Ellis Island – dal 1892 al 1954, anno in cui la struttura ha cessato la sua attività – sono transitati dodici milioni di individui provenienti da tutto il mondo. Il flusso maggiore si è registrato nel 1907 con oltre un milione di stranieri.

Poveracci che hanno vissuto storie di sofferenza, di paura, di solitudine, di inganni, di soprusi, ma anche di riscatto, che dopo un mese di oceano, di afflizioni, di fetore, di mal di mare, di litigi, di scazzottate, di interminabili partite a carte, venivano scaricati in quest’isola per le visite mediche.

In questo grande edificio ottocentesco composto da quattro guglie, ogni emigrato veniva rigorosamente controllato dal punto di vista sanitario, burocratico, intellettivo e giudiziario.

Chi voleva entrare nel Nuovo Mondo doveva superare i controlli, specie la visita agli occhi, a quanto pare particolarmente dolorosa per gli strumenti utilizzati: c’era il rischio del tracoma, una malattia contagiosissima che gli emigrati, stipati come topi, contraevano sulle navi.

Superato questo, si passava alla Sala Registri, dove veniva catalogato il nome, il luogo di nascita, lo stato civile, la destinazione, la disponibilità di denaro, il lavoro, i precedenti penali di ciascun emigrato. Ma questo non era sufficiente se non si superava il test di intelligenza: non era una prova di cultura generale (gli immigrati del tempo erano quasi tutti analfabeti e parlavano solo il dialetto), ma un vero e proprio esame finalizzato a comprendere se l’individuo era potenzialmente ricettivo alle leggi, alla cultura, agli usi del Nuovo Continente.

L’interno dell’edificio è composto da un piano terra molto spazioso, il luogo dell’ammassamento prima dei controlli, e da un un primo piano pieno di stanze ed uffici dove l’emigrato veniva sottoposto alle varie ispezioni.

Dopo il rilascio del permesso di sbarco, lo straniero veniva accompagnato al molo per prendere il traghetto con destinazione Manhattan, dove sarebbe rimasto per lavorare, oppure avrebbe preso il treno per altre località americane.

I “rivedibili” dovevano sottoporsi a un periodo di quarantena, durante il quale venivano curati dentro l’edificio a spese del governo statunitense. I medici del Servizio immigrazione contrassegnavano con un gesso la schiena di ogni straniero: PG stava per “donna  incinta”, K per “ernia”, X per “problemi mentali”.

“I difettosi inesorabilmente esclusi”

“I vecchi, i deformi, i ciechi, i sordomuti e tutti coloro che soffrono di malattie contagiose, aberrazioni mentali e qualsiasi altra infermità sono inesorabilmente esclusi dal suolo americano”. La legge sembrava inflessibile, e tuttavia, secondo alcune fonti, solo il due per cento della popolazione mondiale sarebbe stato respinto.

I “non idonei” – fra i quali esano compresi i pregiudicati per gravi reati – erano reimbarcati immediatamente sulla stessa nave che li aveva portati negli Stati Uniti. Una norma non servita a nulla, visto il livello di criminalità importata soprattutto dall’Italia.

Recarsi a Ellis Island vuol dire emozionarsi, come quando vai a Roma e ti trovi tra le pietre nell’Appia Antica, dove duemila anni fa i soldati dell’impero passarono per conquistare il mondo.

Essere ad Ellis Island vuol dire provare le stesse emozioni, specialmente quando accarezzi il pavimento di cotto, la mattonella di porcellana bianca, lo scorrimano marrone, perché sai che quel pavimento, quella mattonella, quello scorrimano sono stati toccati dai tuoi avi prima della conquista del Mondo Nuovo. Ognuno con una storia tristissima e bellissima alle spalle, ma ognuno con un sogno lungamente inseguito.

 

I prozii e i grandi italiani

L’emozione è attraversare il giardino dell’antico Arsenale militare (questo edificio che ha ospitato gli immigrati) dove trovi un pezzetto di te attraverso un cognome – spesso storpiato da impiegati non troppo zelanti – cercato in mezzo a milioni di cognomi impressi sulle pareti di questo luogo della memoria, oggi trasformato nel Museo dell’Immigrazione. Nomi e cognomi irlandesi, polacchi, scozzesi, inglesi, ebrei, russi, spagnoli, portoricani, cinesi, messicani, peruviani, svizzeri, ma soprattutto italiani, quei cognomi cercati avidamente per riannodare il filo del sentimento e della memoria. Del sentimento perché in quell’elenco interminabile potrebbe esserci impresso il cognome dei tuoi prozii che all’inizio del Novecento passarono da qui per stabilirsi a Chicago. Della memoria perché c’è quello degli italiani che hanno fatto grande l’America, Meucci, Scorsese, De Niro, Travolta, Minnelli, Di Maggio, La Guardia, Coppola, Pacino, Sinatra, Petrosino, tanto per citarne alcuni.

La stragrande maggioranza è rimasta a New York. Fino agli anni Sessanta ha preferito stabilirsi nella “Little Italy”, la parte meridionale di Manhattan (oggi sempre più piccola, a vantaggio di Chinatown), dove ha riprodotto gli usi e i costumi del nostro Paese, i dialetti, il cibo, i mestieri, le feste dei santi protettori, chiassose e multicolori come in Italia. Nella chiesa posta al centro del quartiere, i nostri connazionali, molti anni fa, hanno realizzato la statua di San Gennaro, portata ogni anno in processione con tanto di banda e di fuochi d’artificio. Bisogna vederla… Il santo con la mano alzata, l’indice e il medio sollevati in segno di benedizione, ma a differenza del San Gennaro napoletano, quello americano ha le dita divaricate, come se volesse trasmettere un messaggio di “vittoria”, come si addice a un santo che, avendo varcato l’Atlantico, continua ad ispirarsi alla provvidenza divina (sennò che santo sarebbe?!), ma anche al pragmatismo americano.

Ma l’emozione più grande è osservare le foto in bianco e nero che in un giorno qualunque di un anno qualunque in un’ora qualunque hanno immortalato le scene dello “sbarco”. Non c’è una sola persona di sesso maschile – fra centinaia – a non indossare il vestito scuro, la bombetta, la camicia bianca e la cravatta nera. Indumenti consunti, ma a modo loro eleganti, perché il fine non è solo quello di inserirsi nella ricca e civile società americana mediante l’abito buono, ma mantenere una dignità che prescinde dallo stato sociale. Quella dignità che fa la differenza fra povertà e miseria.

E sembra di sentire il vocio dei bambini che giocano, i rimproveri delle mamme, i rimbrotti dei padri, le lingue e i dialetti più disparati.

A un certo punto, fra enormi bauli e una miriade di valigie di cartone legate con lo spago, si fa avanti un giovane del Sud Italia, il sorriso spaccone, la cascata di capelli neri. “Signorina ha perso il fazzoletto”. Lei si gira ed è di una bellezza incredibile. È moldava. Non capisce l’italiano, ma quando vede l’oggetto smarrito e quel giovane italiano che glielo indica, abbozza un sorriso dolcissimo. Il ragazzo diventa rosso per l’emozione. Il gabbiano finalmente vola.

Tratta dal film "C'era una volta in America" di Sergio Leone