Ero tornato a Salina, e anche quella volta avvertivo una rarefatta atmosfera di pace e di bellezza che sembra appartenere a un altro mondo, un’Isola in cielo come erano la Sicilia e l’Italia prima dell’avvento del cemento. Salina ricorda quell’isola perduta, quel Continente scomparso: la natura primordiale e incontaminata, i buoi e le pecore che pascolano con lo sfondo del mare, il vulcano spento, le distese di vigneti e di capperi che si perdono a vista d’occhio, le chiese in mezzo alla campagna, la strada angusta e stretta, le casette bianche con le colonne e l’incannucciato e i grappoli di pomodori appesi ai muri, e le palme che si stagliano verso il cielo, e le Moto Api che trasportano di tutto.

Ebbene, io non posso fare a meno di identificare questo luogo che annega nella carta geografica del mondo con due persone che ormai fanno parte dell’isola: Massimo Troisi e Pippo Cafarella.

Massimo, dopo aver girato “Il postino”, a Salina ha lasciato un pezzo della sua anima: ancor oggi – a vent’anni dalla sua morte e dall’uscita del film “Il postino” – turisti italiani e stranieri gli dedicano dei bigliettini che lasciano davanti alla casa, frasi lunghe, poesie, un semplice “Ciao Massimo” accompagnato dal disegno di un cuoricino o di un fiore.

Il pittore e poeta Pippo Cafarella

Pippo – proprietario della “casa di Neruda” – a quel film è indissolubilmente legato, perché quella casa, nell’opera del regista Michael Redford, ha un ruolo centrale. Pippo è molto più del proprietario: è la “memoria” di quella dimora. È stato lui, tanti anni fa, a ristrutturarla, a rifare la facciata con le terre e le malte dell’isola, una facciata che, parecchio tempo dopo, avrebbe colpito la produzione del film. È stato lui – in particolari momenti esistenziali – ad andarci a vivere per lunghi periodi e a chiudere con il mondo.

Pippo Cafarella ha molti punti in comune col “postino” Mario Ruoppolo-Massimo Troisi, stesse ispirazioni, stessa ideologia di sinistra, stesso impegno contro la politica balorda del secondo dopoguerra. Con una differenza: la malinconia di Mario Ruoppolo ha il pudore della povera gente dei secoli scorsi. La malinconia di Pippo Cafarella è quella del borghese di fine Novecento. Mai il pescatore Mario Ruoppolo avrebbe parlato “della festa dell’impecorinata”, con tanto di elogio della “minchia pazza”. Pippo Cafarella sì: tanti anni fa ne fu l’organizzatore goliardico e folle. Per il resto, fra i due, la somiglianza è notevole.

Ci sediamo sul sedile di ceramica posto davanti a questa dimora color tramonto, dove sono state immortalate le leggendarie disquisizioni poetiche tra il Vate Neruda-Noiret e il “postino”: nel film si parlava di metafore e di amore per la bella Beatrice Russo (Maria Grazia Cucinotta), mentre le vibranti note di un tango argentino si sprigionavano dal grammofono antico.

Da questo poggio si domina la baia di Pollara, il costone roccioso e la spiaggia, mentre l’acqua si distende sulla sabbia e il suono del mare è quello riprodotto da Mario con i rudimentali registratori dell’immediato dopoguerra. In primo piano i colori delle buganvillee, degli ulivi e dei gerani, in secondo la tavolozza azzurra leggermente striata dal bianco spumoso lasciato da una barca a vela.

“Vedi quegli scogli? Sono abitati dalle Diomedee, mitici uccelli che la notte emettono un suono straziante. Una volta si pensava che quel canto fosse attribuibile al fantasma di una bellissima donna buttatasi nel pozzo di questa casa per una delusione d’amore”.

Leggende che si perdono nella notte dei tempi e che si intrecciano col mito antico e moderno. Il mito di Omero e di Troisi, di Neruda e del Nobel per la letteratura e del socialismo romantico.

Pippo fruga nelle tasche, prende una lettera dedicata all’attore, e la legge, mentre la brezza sale dal mare, e lui intercala pensieri antichi e presenti con le parole contenute nella missiva.

“Qui sono nato e qui voglio essere seppellito. Qui ho trascorso la mia infanzia, qui le mitiche stagioni della raccolta delle olive. Ricordo i contadini, dopo la potatura, scaraventare a mare i tronchi di ulivo che affioravano dopo qualche minuto. Qui feci il mio Sessantotto, decine di hippy di tutto il mondo che predicavano la pace e l’amore libero vennero ospitati da me, qui vengo per ritrovare me stesso, non d’estate (quando affitto la casa) ma nelle fredde giornate d’inverno, quando le acque piovane e marine si incontrano e sbattono sui vetri e il vento si insinua tra il vulcano e la roccia. Solo allora comincio a dipingere e ad abbozzare versi”.

Caro Massimo,

parlavamo la stessa lingua, ricordi?, che disordini di quadri nelle stanze di questa casa magica, quando tu hai scelto il mio da mettere in scena… non so se “minchia pazza” era una metafora, ma tu ridevi… ed io pure. Grazie di tutto quello che hai detto nel film, mi hai dato tanta forza… e che orgoglio per me che quelle belle parole partissero da questa casa che, come tu stesso mi hai detto, era importante, perché doveva rappresentare la poesia.

“Mi hanno offerto un sacco di soldi per venderla. A un certo punto, per togliermeli davanti ho sparato cifre pazzesche. Non se ne è fatto nulla, sono felice. Non mi interessano i soldi, sarebbe come vendere l’anima. Da alcuni anni, approfittando del successo del film, stanno cercando di speculare attorno alla casa con un progetto di cementificazione al quale mi sono opposto strenuamente. In parte sono riuscito a fermarlo, in parte no, la battaglia continua”.

Mi hai dato ancora più forza e più voce per potere dire no. Mi hai dato la forza di alzarmi ancora in piedi, anche quando mi facevano male le ossa.

Ma in Sicilia – anche nell’”Isola in cielo” – continuare certe battaglie porta a pagare prezzi altissimi. Prima hanno cercato di farglielo capire con le buone, Pippo-smettila-Non-metterti-contro-i-mulini-a-vento. Niente da fare. Quindi sono passati alle vie di fatto: lo hanno aspettato e lo hanno aggredito a pugni, a calci e a colpi di bastone per indurlo alla ragione, niente da fare anche stavolta. Lui non demorde e passa al contrattacco, puntando l’indice contro certi personaggi della terraferma che, a suo dire, stanno cercando di mettere le mani sull’isola. Certo, alle Eolie i vincoli di inedificabilità sono piuttosto rigidi. Ma solo per le volumetrie “fuori terra”. Per gli scantinati e i piani interrati l’edificazione è consentita. E così loro, i “civilizzati”, hanno trovato l’escamotage per farla franca: richieste a bizzeffe per costruire sottoterra. Bunker? No, villette in cemento armato. Con tanto di vista sul mare. Come nei santuari della modernità e dello sviluppo.

Ho parlato, anche se loro cercano di togliermi la voce, perché non ho ancora imparato quello che insegnano: vedere, sentire e parlare nel giusto modo, ma senza dire… con buona resa… nei giusti giri di affari convenienti, comodi e protetti…

Dobbiamo parlare con forza, adesso, sai! Perché quando non potranno prendere questo tempio, loro, lo distruggeranno…

E alle parole “lo distruggeranno”, Pippo fa una pausa lunghissima, come se volesse trattenere tutta la rabbia e tutte le lacrime che ha in corpo. Poi legge le ultime righe della lettera

Questa tenera, rosea poesia la mostrerò a tutti oggi, semplice e naturale come te, nel tuo ricordo…

Intanto il sole volge al tramonto e assume i colori struggenti della casa, e gli uccelli, dopo una giornata di felicità, tornano nei loro alberi. Le giuste armonie. Che Pippo vuole salvare, perché l’Isola in cielo continui ad essere quella dei poeti. Anche questa volta lascerò qui un pezzo della mia anima.