Cara Signora Falcone,
Le scrivo con la deferenza e il rispetto che merita.
Mi permetta però – con altrettanta franchezza – di usare una parola che con Lei non avrei mai voluto usare: basta.
Basta, Signora Falcone, con queste accuse di “tradimento” che puntualmente rivolge a Orlando alla vigilia di un anniversario della strage di Capaci.
Basta, perché in giro ci sono troppi sciacalli pronti ad approfittare delle sue dichiarazioni per sferrare la solita aggressione, per gettare il solito fango, specie adesso che siamo alla vigilia di un’elezione fra le più delicate della storia di Palermo, mentre i cittadini vivono con disperazione questi momenti e molti di essi arrivano perfino al suicidio.
Dia un’occhiata a tutte le infamie che in vent’anni si sono scritte su Leoluca Orlando, approfittando delle dichiarazioni che Lei rilascia.
Non è possibile che da un ventennio, ogni volta che qualcuno Le fa un’intervista, dobbiamo sentire che Orlando è stato fra quelli che isolarono Suo fratello, come un qualsiasi fiancheggiatore di Cosa nostra. Anche perché non sempre quel “qualcuno” è spinto dall’intento sincero di ristabilire certe verità. Spesso – e Lei lo sa perfettamente – le Sue parole vengono utilizzate per motivi abietti.
A volte – a volte, fortunatamente… – chi le offre un microfono è “mandato” – e Lei sa perfettamente anche questo – da quel sistema eversivo che ha ucciso Giovanni Falcone, la moglie Francesca Morvillo e gli agenti della scorta.
Lei crede che i vari vittoriosgarbi, giulianoferrara, emiliofede e compagnia bella ripetano il solito ritornello per amore di verità e di giustizia? È veramente triste assistere a delle trasmissioni, sia alla Rai che a Mediaset, che ripetono instancabilmente il solito repertorio: Orlando contro Giovanni Falcone, Maria Falcone contro Orlando.
Oggi, a causa di questo tipo di vulgata mediatica, i ragazzi che non hanno vissuto quel periodo sono convinti davvero che Orlando e Galasso (un altro importante simbolo della lotta contro Cosa nostra, che a un certo punto ritenne di criticare Suo fratello) contribuirono all’uccisione del giudice Falcone. Se questo assunto è vero, è anche vero che Leonardo Sciascia fu tra i mandanti morali – seppur con diversi anni di anticipo – della morte di Paolo Borsellino. Mettiamola così. Ma siccome questo non è vero, almeno per chi è abituato a ragionare a trecentosessanta gradi, diciamo che è una boutade anche questa.
Lei ricorderà sicuramente quando l’autore del “Giorno della civetta”, dalle colonne del Corriere della Sera, sferrò un violentissimo attacco ai “Professionisti dell’antimafia” (frase che lo stesso scrittore coniò per l’occasione), con chiaro riferimento a Paolo Borsellino, perché questi era stato nominato dal Csm procuratore di Marsala al posto di un magistrato più anziano (il dott. Alcamo), contravvenendo alla norma che stabilisce la precedenza al giudice più vecchio.
Oggi le pagine di facebook sono piene di interventi che ci riportano a un periodo della storia che si ha la pretesa di guardare con il senno di oggi. A un periodo della storia in cui – Orlando lo ha spiegato in questi giorni al Fatto quotidiano – i morti per strada, i morti cui Voi volevate bene, si contavano a grappoli e la sete di giustizia era tantissima. A un periodo della storia in cui sia Orlando che Falcone giravano blindati ventiquattr’ore su ventiquattro, senza un attimo da dedicare alle loro famiglie, senza un briciolo di felicità, di libertà.
Oggi su facebook si leggono frasi di questo tenore: “Orlando è meglio che per l’anniversario della strage non si faccia vedere a Capaci, sennò gli sputo in faccia”.
E lei, signora Falcone, pur ancora ferita da un dolore che rispettiamo, di fronte allo squallore di queste frasi, non sente il dovere di andare oltre la parola “tradimento”?
E se, dopo questo ennesimo gioco al massacro, dovesse succedere qualcosa ad Orlando, che facciamo, cominciamo uno stillicidio fatto di nuove accuse e controaccuse contro di lei? Sarebbe davvero terribile. E triste.
Orlando avrà commesso i suoi errori, ha ammesso che sbagliò ad usare certi toni, ma cara Signora Falcone, come si fa a pretendere (così come Lei stessa ha dichiarato al Corriere della Sera) che vent’anni dopo egli ripeta quelle quattro parole: “Con Falcone ho sbagliato”?
Prima di tutto perché lui è convinto di non avere sbagliato (e ora vedremo il motivo), e poi, specie perché siamo alla vigilia di una importante elezione, perché sarebbe fin troppo comodo – e anche vigliacco – “pentirsi” proprio adesso, magari per raccattare qualche voto in più.
Secondo il mio modesto parere, per chiudere definitivamente questa lacerante polemica, bisogna porsi una domanda: Leoluca Orlando ha fatto (e fa) con onestà la lotta alla mafia? L’ha fatta (e la fa) in buonafede? È da qui che si dovrebbe partire per fare un discorso serio, e sereno.
Ora, vede, Signora Falcone, umanamente posso anche comprendere che a quel tempo, addolorata per l’uccisione di Suo fratello, abbia accusato Orlando delle cose più nefaste. Ma ora, due decenni dopo, mi sembra che sia giunto il tempo che il risentimento ceda il passo alla ragione.
Quella stessa ragione che portò Paolo Borsellino e Antonino Caponnetto a stare vicini ad Orlando anche dopo la strage. Per il semplice motivo che la polemica sulle “verità nei cassetti” non nacque con l’intento di screditare Falcone, ma con la consapevolezza e la voglia di scardinare un terribile sistema mafioso rappresentato da Andreotti, da Lima e da Ciancimino.
Era quella una stagione di grandi passioni politiche, e di grandi slanci, in cui si era davvero a un passo dallo sconfiggere il sistema di potere colluso con Cosa nostra. C’era stato il maxiprocesso e c’era stata la Primavera palermitana. Il fronte giudiziario aveva i suoi simboli (Falcone e Borsellino), il fronte politico pure (Leoluca Orlando).
A un certo punto – dopo che entrambi i fronti avevano marciato uniti – le strade di Orlando e di Falcone si divisero. Orlando parlava di verità nei cassetti, verità “politiche” ovviamente, che a volte coincidono con quelle “giudiziarie”, e forse – stando al processo Andreotti istruito successivamente da Caselli, che stabilì la contiguità, fino all’inizio degli anni Ottanta, fra l’ex presidente del Consiglio e la mafia – forse non aveva tutti i torti.
Falcone invece diceva che ci volevano delle “prove” inoppugnabili, e aveva ragione anche lui, specie se si pensa che la mafia del tempo era la mafia più potente del mondo e lui, il giudice Falcone, in un contesto di veleni, alimentati dai continui boicottaggi del suo capo Piero Giammanco, dalle lettere del “corvo”, dall’attentato all’Addaura, e dalle sentenze cassate in Cassazione, non poteva permettersi di sbagliare. Per dirla con Masino Buscetta, non c’erano ancora le condizioni sociali e politiche per incriminare Andreotti. Questo è il vero nodo da sciogliere per comprendere compiutamente questa storia: le parole di Buscetta.
La verità è che avevano ragione entrambi, solo che entrambi vedevano lo stesso problema da angolature diverse. Su queste “ragioni” nacque lo scontro. Uno scontro che si acuì quando Falcone decise di trasferirsi a Roma per dirigere un Ufficio prestigioso e importante per la lotta a Cosa nostra, che però era alle dirette dipendenze del ministro di Grazia e Giustizia, il socialista Claudio Martelli. Lei sicuramente ricorderà cos’era il Partito socialista dell’epoca. E conoscerà i rapporti strettissimi fra quel partito e il sistema affaristico-mafioso di quegli anni. Martelli magari avrà agito con nobili intenti, ma la situazione era obiettivamente quella.
La scelta di Suo fratello di lasciare Palermo e di andare al ministero, in verità, fummo in molti a non comprenderla, anche se oggi in pochi lo ammettono. Questo vuol dire che siamo tutti traditori?
No, Signora Falcone, non si tradisce quando si dice democraticamente quello che si pensa. Si tradisce quando si trama nell’ombra, quando si pesca nel torbido, quando un potere eversivo spegne la luce delle nostre coscienze, come è successo finora.
Ora, cara Signora Falcone, credo che sia arrivato il tempo di spiegare queste cose, e di spiegarle soprattutto ai giovani, che allora non c’erano, ma che oggi osservano e giudicano.
Con profonda stima