Della casa antica restano soltanto due palme soffocate dal cemento. Lì un tempo c’era il giardino arabo, l’arco a sesto acuto, i muri di pietra. Al loro posto, oggi, c’è un grigio ed anonimo palazzo in cemento, un parcheggio, un supermercato. Lo scrittore osserva quelle palme e fa un lungo sospiro: “In quella casa siamo cresciuti otto figli. Il giardino era il luogo della fantasia, della scoperta, dei giochi. Un giorno mio padre morì senza lasciare testamento. La casa fu venduta. Il nuovo proprietario decise di abbatterla: provai un grande dolore, un dolore che dura ancora”.

Eppure Vincenzo Consolo torna sempre a Sant’Agata di Militello, il paese in provincia di Messina dove è nato nel 1933, e da dove, come molti intellettuali della sua terra, è andato via per cercare fortuna a Milano: “In Sicilia tutto era stato ipotecato dal potere democristiano”. E per lui, “marxista senza tessera di partito”, negli anni della guerra fredda tutto diventava difficile. Da quel momento l’isola è diventata l’approdo, il rifugio dopo il lungo viaggio, il luogo dei ricordi: “Penso sempre alla Sicilia della mia infanzia. E lo faccio con grande gioia e con grande nostalgia. Ricordo un viaggio mitico avvenuto nel ’43, quando nell’isola arrivarono gli americani. Avevo dieci anni e seguivo sempre mio padre. Con il camion ci recammo all’interno della Sicilia alla ricerca di cereali e di legumi, che in questa zona scarseggiavano. Ricordo questo viaggio epico nelle strade dissestate e polverose dell’isola, con le carcasse dei carri armati ai bordi dello stradale. Era il tempo della vendemmia, i contadini con le ceste caricate sulle spalle si fermavano e ci offrivano dell’uva. Arrivammo fino a Villalba, in provincia di Caltanissetta. Mio padre e mio zio si recarono dal commerciante locale per comprare delle lenticchie (quelle di Villalba erano famose). Ne prendemmo tre sacchi. Quando i legumi furono caricati sui camion arrivò il maresciallo dei carabinieri: ‘Da qui le lenticchie non possono partire’. Il commerciante ci disse: ‘Venite con me’. Arrivammo davanti a un palazzo antico. Suonammo e ci fecero accomodare. Quindi arrivò un signore col bastone: era il famoso don Calò Vizzini, capomafia del paese, diventato sindaco di Villalba grazie agli americani. Ascoltò dal commerciante la vicenda, rifletté un poco, poi esclamò: ‘Fra mezz’ora potrete ripartire’. Dopo trenta minuti riprendemmo la via di casa senza problemi. La mafia è sempre stata un fenomeno negativo, aberrante, ma almeno quella di una volta aveva delle regole. Quella di oggi è volgare e sanguinaria”. E il mondo contadino di un tempo, come lo ricorda? “Non voglio mitizzare il passato, che in Sicilia era fatto di dolore, di povertà, di ignoranza, di umiliazione, almeno per le classi economicamente più deboli. Qui c’era il potere delle classi alte, soprattutto dei proprietari terrieri. Però era un mondo dove ancora al centro c’era l’uomo, con i suoi valori e i suoi principi. Tutto cambiò profondamente con l’esodo del bracciantato siciliano verso il nord. Credo che lo spopolamento delle campagne di quei braccianti che avevano fatto le lotte contadine, che avevano occupato le terre per ottenere la riforma agraria, abbia causato l’espandersi della mafia. Ricordo la disperazione di tanta gente che dalla stazione del mio paese partiva verso il nord”. Consolo parla di tutto questo e fissa il “suo” mare, mentre il discorso scivola su altri argomenti. Nei suoi libri (ricordiamo fra gli altri Il sorriso dell’ignoto marinaio, Nottetempo casa per casa, L’olivo e l’olivastro, Le pietre di Pantalica, Retablo), ricorre spesso la figura di uno zio che ha inciso nella sua formazione. “Lo zio è un escamotage per non parlare del padre, figura molto abusata in letteratura”. Nel romanzo Lo spasimo di Palermo, i figli “uccidono” metaforicamente i padri. Perché? “Uno scrittore è sempre un parricida: deve ‘uccidere’ un padre ingombrante ed adottare uno zio”. Com’era suo padre? “Apparteneva ad una famiglia di commercianti di generi alimentari. Essendo benestante, aveva compiuto un gesto di grande trasgressione scegliendo come moglie una donna che non era del suo stato sociale. Poi aveva commesso un’altra trasgressione, quella di fare otto figli, mentre gli altri fratelli erano scapoli o senza figli. Era un uomo dignitoso, nemico di ogni ingiustizia e di ogni sopraffazione. Disprezzava il fascismo. Una volta prese a schiaffi un proprietario terriero che cercava di imbrogliarlo, un’altra disse al podestà: ‘Buffone lei e il fascio”. Consolo, chi le ha fatto scoprire la scrittura? “Quella che mi ha inoculato i germi del racconto fu una prozia. Era vedova e viveva in casa con noi. Era una grande narratrice, ci intratteneva con tutta la favolistica siciliana. Era molto ironica e quando doveva fare certi flash back diceva: ‘Menti pi mia’. Un intercalare per dire ‘torniamo indietro”. Nel ’63 accaddero due fatti che cambiarono la vita di Vincenzo Consolo: la Mondatori pubblicò il suo primo romanzo, La ferita dell’aprile. Quindi ebbe inizio un’amicizia profonda con un altro grande scrittore siciliano, Leonardo Sciascia: “Gli spedii il libro con una lettera in cui dichiarai il mio debito nei suoi confronti: avevo scoperto questo scrittore straordinario allora poco conosciuto. Sciascia mi ringraziò con una lettera molto bella, e mi invitò ad andarlo a trovare a Caltanissetta, dove a quel tempo abitava: era consulente della omonima casa editrice e dirigeva la rivista Galleria. Nel luglio del ’63 andai a Caltanissetta. Fu un incontro bellissimo. Scoprii un uomo di grande acutezza e di grande spirito di osservazione. Da quel momento diventammo amici. Poi lui si trasferì a Palermo ed io decisi di lasciare definitivamente la Sicilia anche su suo consiglio: “Fai bene ad andare via, qui non c’è più speranza. Se fossi più giovane, se non avessi famiglia, partirei anch’io”.