C’è una Sicilia mitica e lontana che dalla fine dell’Ottocento alla metà del Novecento ha lottato strenuamente contro le prepotenze della mafia per un’equa ripartizione delle terre. È la Sicilia cancellata dalla storia ufficiale e rimossa dalla memoria collettiva, che ha dimostrato, con centinaia di morti lasciati sul campo, che c’è stato un tempo in cui la lotta a Cosa nostra non è stata appannaggio di una minoranza, ma una prerogativa di massa. E’ la Sicilia contadina, protagonista per oltre cinquant’anni di battaglie per i diritti dei lavoratori – a quel tempo ridotti al livello di servitori della gleba – che i latifondisti collusi con la mafia non intendevano concedere. Non solo una battaglia per sconfiggere la fame, ma una battaglia di civiltà per migliorare il futuro delle nuove generazioni. È quanto si ricava dal libro di Nino Marino, avvocato e memoria storica dell’antimafia trapanese (“Fame di terra e sete di libertà”. Prefazione di Renato Lo Schiavo), 216 pagine ricche di documenti e di testimonianze orali che ricostruiscono la storia di quella lunga stagione fatta di stragi mafiose, di occupazioni dei fondi agricoli e di delitti impuniti. Si tratta, come si legge nel sottotitolo, del “racconto dell’epopea delle lotte contadine nei feudi di Trapani”, ma anche “la rivoluzione liberale fatta dai proletari e dagli intellettuali”. Un volume che ripercorre le tappe di una battaglia che il bracciantato ha condotto per oltre mezzo secolo senza mai piegare la schiena in una delle zone più mafiose dell’Isola. Se finora si è scritto abbastanza sul movimento contadino di altre province (Palermo soprattutto), poco si è letto su questa rivoluzione partita “dal basso” che nel trapanese ha coinvolto uomini, donne e perfino bambini impegnati per il riscatto della loro condizione sociale. “All’inizio del ‘900, la provincia di Trapani – scrive Marino – risultava ai primi posti in Sicilia” per la costituzione delle Leghe di contadini. Si parte con la strage di Castelluzzo (13 settembre 1904): 2 morti (fra cui una giovane donna) e 6 feriti a causa di un’irruzione dei Regi Carabinieri ad una riunione di braccianti. Quel giorno, “verso le sette di sera”, morirono Vito Lombardo, 51 anni (una moglie e sei figli da sfamare), e Anna Grammatico (27). Quel che colpisce è l’età media dei feriti: 24, 28, 30, 34, 35 anni. Quella volta, dunque, non fu la mafia a sparare (almeno ufficialmente: “La medicina e la balistica accertarono il contrario”, si legge, nel senso che Cosa nostra avrebbe partecipato, seppure di nascosto) ma i carabinieri, comandati dal brigadiere Carlo Riffaldi, il quale, “poche ore prima chiacchierava e rideva col capomafia” della zona. “Non è una forzatura – spiega l’autore – cogliere le linee essenziali di sovrapposizione fra Castelluzzo e Portella della Ginestra”. Negli anni successivi sarebbe stata soprattutto Cosa nostra ad entrare pesantemente in campo in combutta con le famiglie aristocratiche. “Il Partito agrario si alleò col fascismo” al quale, oltre ai feudi, consegnò una interessante proposta elettorale: “Per la provincia di Trapani, il Governo raccoglierebbe un larghissimo suffragio attorno ai nomi di Giacomo Hopps Carraci di Mazara e del Comm. Giulio D’Alì Staiti di Trapani”. Il 1922 fu un anno terribile. Nei primi sei mesi la mafia fece una carneficina anche di personaggi eccellenti: il primo a cadere fu un sindaco, il socialista Sebastiano Bonfiglio, primo cittadino di Monte San Giuliano. Poi un’altra strage. Epicentro questa volta Paceco. La strategia della tensione colpì la famiglia di Giacomo Spatola, altro valoroso simbolo del movimento contadino, fondatore della Banca agricola di Paceco: i boss gli trucidarono i due figli e il fratello; un altro fratello nel frattempo era morto al Nord nella lotta partigiana. A giugno, sempre a Paceco, fu la volta di Nino Scuderi, anche lui socialista e dirigente dei contadini. Nel ‘47 a Marsala il piombo mafioso falcidiava il comunista Vito Pipitone. Aveva capeggiato l’occupazione del feudo Rinazzo e del feudo Giudeo: il primo “affittato alla famiglia mafiosa dei Licari”, il secondo “di proprietà della principessa Pignatelli e dei marchesi Platamone D’Alì”. Un libro, quello di Marino, che non si limita a ricordare i caduti, ma che racconta anche le storie appassionanti dei tanti protagonisti rimasti vivi, quelli che hanno pagato prezzi altissimi per portare avanti la loro lotta di libertà, a dimostrazione del fatto che anche nella “capitale della mafia” c’è stata un’antimafia vera, intransigente, popolare che si è opposta strenuamente alle angherie di Cosa nostra. Ha vinto la mafia, ma se da allora le condizioni di vita sono migliorate lo dobbiamo a quei contadini con la terza elementare che sapevano guardare lontano.