Nel 1876 due deputati nazionali, Leopoldo Franchetti e Sidney Sonnino, presentano in Parlamento una relazione destinata a passare alla storia, si intitola “Inchiesta in Sicilia”, è la prima indagine documentata sulle condizioni sociali ed economiche dell’Isola dopo l’Unità d’Italia.

Prima d’allora nessuno – almeno a certi livelli – si era cimentato in un lavoro del genere, c’erano stati i grandi viaggiatori che della Sicilia avevano descritto il volto più bello, ma non avevano approfondito il lato più deteriore e triste. Questa relazione, oltre a creare scandalo negli ambienti più perbenisti, fu considerata un fulmine a ciel sereno per chi era abituato ad avere dell’Isola l’immagine aulica dell’”Isola felice”.

I parlamentari, avvalendosi delle testimonianze di persone comuni, di magistrati, di prefetti, di questori e di rappresentanti della forze dell’ordine, descrivono la mafia come si presenta ai loro occhi – un’accozzaglia di briganti, di malandrini, di facinorosi alleati con i ricchi proprietari terrieri, che trae forza dalla violenza e dal delitto –, stilano centinaia di pagine che suscitano dibattiti a non finire, ma evidentemente non riescono ad andare oltre (almeno sul piano politico). Anzi, le analogie fra quell’epoca e questa – seppure segnate da condizioni del tutto differenti – è stupefacente, soprattutto per quanto riguarda i rapporti fra mafia e politica.

Un lavoro prezioso perché “pionieristico” in quanto precede quello di illustri studiosi della questione meridionale (pensiamo a Giustino Fortunato) e perché mette in risalto le diverse sfaccettature del fenomeno mafioso. A tanti anni di distanza, la casa editrice “Yorick” pubblica dei passi scelti di quella famosa relazione, destinati soprattutto alle scuole. Il titolo, “La mafia è un sentimento medioevale”, è estrapolato da una frase contenuta nella stessa relazione. Un lavoro arricchito da un saggio (“Il costo delle mafie”) curato da Giuseppe Ciaccio, responsabile del Nucleo ricerche economiche della sede palermitana della Banca d’Italia, che approfondisce le ricadute finanziarie – soprattutto in Sicilia, Calabria, Campania e Puglia – causate dalla presenza della criminalità organizzata.

Le pagine di Franchetti e Sonnino “fotografano” la condizione di una Sicilia povera e ignorante, dove la mafia si è sostituita in tutto e per tutto ad uno Stato assente e spesso inefficace, anche se la differenza fra la parte occidentale dell’Isola e quella orientale (allora indenne dal fenomeno mafioso) viene marcata più volte.

“La prima impressione”, si legge, “del viaggiatore che, sbarcato a Palermo, visita la città e i suoi dintorni… è una delle più grate che si possano immaginare”. Gli autori vengono colpiti dalla “bellezza delle vie principali, dall’aspetto monumentale dei palazzi, e dall’illuminazione notturna, una delle migliori d’Europa”, e scrivono che il capoluogo siciliano “presenta tutte le apparenze di un paese ricco e industrioso”, specie se si pensa alla “perfezione della coltura dei giardini della Conca d’Oro”.

Ma quando il forestiero si spinge oltre le apparenze, si accorge che la situazione è ben diversa. “Egli sente raccontare che in quel tal luogo è stato ucciso con una fucilata partita da dietro un muro, il guardiano del giardino, perché il proprietario lo aveva preso al suo servizio invece di altro, suggeritogli da certa gente che s’è presa l’incarico di distribuire gl’impieghi nei fondi altrui”.

Non meno efficace quest’altro passo, che si sofferma sul modo di fare clientelismo (probabilmente a sfondo politico) con la forza del delitto: “A un giovane che aveva avuto l’abnegazione di dedicarsi alla fondazione e alla cura di asili infantili nei dintorni di Palermo, è stata tirata una fucilata”. Perché? “Certe persone che dominavano le plebi di quei dintorni, temevano ch’egli, beneficando le classi povere, si acquistasse sulle popolazioni un poco dell’influenza ch’esse volevano riserbata esclusivamente a sé stesse”. Ma questo è soltanto il “primo livello”, l’ala militare dell’organizzazione.

Poi si scorge il “terzo”, quello politico: “I Ministeri italiani d’ogni partito sono i primi a dare l’esempio di quelle transazioni interessate che sono la rovina della Sicilia”. E poi: “Il prefetto stesso deve ubbidire ai superiori, e così dimenticare il vero fine  della sua missione”. Alla fine la storia si ripete: “Una volta aperta la porta agli intrighi, si vede a Roma l’influenza del prefetto avversata da quelle stesse persone che egli ha ufficio di combattere”. Conclusione: quando dei capi mafia si trovano sotto processo per quelle “violenze sanguinarie che opprimono il paese, v’è come una forza arcana che li protegge contro chiunque, soprattutto contro l’autorità pubblica”. Sono trascorsi 134 anni. Da allora cosa è cambiato?

Luciano Mirone